I bambini al ristorante creano più dibattito del razzismo da Coronavirus, se non altro perché su chi evita di andare al cinese in questo periodo c’è ben poco da dibattere. Il nostro articolo sulle responsabilità dei ristoratori nella ghettizzazione delle famiglie con prole ha fatto “scalpore”, vuoi perché abbiamo provato ad analizzare la piaga sociale dei bimbi al ristorante in un’altra prospettiva, vuoi perché ammettere che i bambini sono una gran rottura di palle e che evitare fasciatoi e giochini è una maniera sottesa per dire che non sono i benvenuti, non appartiene al linguaggio del politicamente corretto dei nostri giorni.
Oggi vogliamo mettere il dito nella piaga, solleticati anche dalla stretta attualità: avrete presente l’ormai famoso pizzaiolo di Sondrio che ha deciso di invitare più che caldamente i suoi clienti a lasciare a casa i bambini (maleducati). Di sicuro questo pizzaiolo fa parte della categoria – che ci pare assai nutrita – di persone che invocano ristoranti “adults only”, ovvero dove l’ingresso ai bambini è di fatto vietato. Una tendenza che sta prendendo piede con successo nelle destinazioni turistiche più esotiche e romantiche, per esempio.
Ma in Italia questo tipo di percorso è praticabile? Ovvero: giuridicamente, è davvero possibile vietare l’ingresso ai bambini nei ristoranti? Abbiamo cercato di capirlo, analizzando la giurisprudenza in materia.
Bambini al ristorante: cosa dice la legge
Il punto di partenza dovrebbe essere la nostra Costituzione, che all’articolo 3 sancisce il generale principio di uguaglianza di tutte le persone. Dopodiché, entrando maggiormente nel dettaglio, in merito alla questione c’è un articolo che di per sé ci sembra già abbastanza esaustivo, ed è l’art. 187 del regolamento per l’esecuzione del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza (TULPS), che sovraintende e regolamenta gli esercizi pubblici: “Salvo quanto dispongono gli artt. 689 e 691 del codice penale, gli esercenti non possono senza un legittimo motivo, rifiutare le prestazioni del proprio esercizio a chiunque le domandi e ne corrisponda il prezzo“. Per inciso, gli artt. 689 e 691 del codice penale impongono il divieto di somministrazione di bevande alcoliche a minori di anni sedici, infermi di mente e in manifesto stato di ubriachezza.
Quindi, i bambini rientrano nella categoria di coloro a cui un pubblico esercizio non può rifiutare arbitrariamente il servizio, fatta eccezione per gli alcolici.
“Già, ma il locale e mio e decido io chi farci entrare e chi no”, potrebbe dire qualcuno.
In quel caso, la giurisprudenza gli risponderebbe che magari il locale è anche di sua proprietà, ma finché fa “attività di somministrazione al pubblico di alimenti e di bevande” è da considerarsi un pubblico esercizio, come stabilisce la legge 25 agosto 1991, n.287.
“Uff, che noia ‘sta giurisprudenza. Ah, ma qui c’è scritto che posso rifiutarmi di servire un cliente in caso di legittimo motivo. E il motivo del mio divieto è che i bambini disturbano. È legittimo, no?”. Mmmm…in realtà non proprio. Può essere legittimo sostenere che una famiglia non può prenotare un tavolo perché, ad esempio, il locale è pieno, ma in tal caso il rifiuto deve essere opposto indipendentemente dalla presenza o meno di bambini.
Potrebbe, con qualche dubbio, ritenersi motivo legittimo lo spazio ridotto all’interno del locale qualora l’introduzione del passeggino lo riducesse ulteriormente, ma in quel caso allora diventerebbe lecito anche vietare l’ingresso alle persone portatrici di handicap che si muovono in sedia a rotelle.
Se è vero che la norma parla genericamente di “legittimo motivo” e può quindi lasciare spazio a interpretazioni soggettive, è sicuramente altrettanto vero che non è considerabile legittimo il rifiuto aprioristico di fare entrare i bambini in un locale perché disturbano, perché non è lecito presupporre che tutti i bambini lo facciano.
Quindi, è bene che lo sappiate, se vi ha mai sfiorato l’idea di aprire un ristorante “child free” in Italia, non solo non potete farlo, ma se la famiglia di turno che rimane chiusa fuori dal locale decide di chiamare le forze dell’ordine, rischiate anche una multa da 516 a 3098 euro (art. 221 bis primo comma del TULPS).