Una giornata di shopping scontato abbinata a una dose di fritto d’autore, riuscite a pensare a qualcosa di meglio? Quando ho saputo dell’apertura all’outlet di Vicolungo di “Antonino, il Banco di Cannavacciuolo”, il nuovo punto “smart-gourmet” dello chef più celebre d’Italia, Antonino Cannavacciuolo per l’appunto, per poco non mi sono spellata le mani a suon di applausi. Ci sono andata, per conto di Dissapore, per dirvi com’è, come si mangia, quanto si spende, come si sta.
Premessa: è già da qualche tempo che la dimora storica ottocentesca Villa Crespi (due stelle Michelin) sembra stare stretta (ah-ah) ad Antonino Cannavacciuolo, che dal suo canto non ha mai fatto segreto delle sue mire imprenditoriali, che lo hanno portato a una serie di successi notevoli. Primi fra tutti, certamente, i suoi bistrot di Torino e Novara che, grazie alle ricette dello chef partenopeo e alle mani di Nicola Somma (a Torino) e di Vincenzo Manicone (a Novara) gli sono valsi altre due stelle Michelin, una per ciascun bistrot aperto.
Un poker niente male davvero, che dimostra spirito imprenditoriale, oltre che una visione lucida della cucina contemporanea (proprio da colui che ha contribuito così tanto a riportare la pasta sulle tavole stellate).
C’è poi Laqua Charme & Boutique, a Meta, in provincia di Napoli, con cui Antonino Cannavacciuolo tenta la carta dell’ospitalità di lusso, aprendo agli ospiti la sua “casa al mare”.
Ultimo arrivato dell’impero dei Cannavacciuolo’s (al fianco di Antonino, da sempre, c’è la moglie Cinzia Primatesta) è Antonino, il Banco di Cannavacciuolo, il suo punto street food gourmet collocato nel cuore di uno degli outlet più frequentati del Nord Italia, il The Style Outlet di Vicolungo.
Il binomio street food firmato + abiti firmati è qualcosa di irresistibile, per questo a pochissimi giorni dall’annunciatissima apertura di “Antonino” carichiamo in macchina stipendio e mandibole, prontissimi a consumarli entrambi in quel di Vicolungo.
Com’è Antonino, il Banco di Cannavacciuolo
Quel che ci troviamo davanti, quando ci approcciamo al nuovo punto vendita firmato Antonino Cannavacciuolo, è un locale carino, curato, dall’aria piuttosto elegante: un tappetto nero gigantesco ci avvisa all’ingresso che si tratta di una “new opening” e due stewarts in completo nero ci accolgono in maniera formale, ricordandoci (tra l’altro) quanto sia importante impegnarsi in questa giornata di shopping, visto che non ricordiamo di avere un abito adeguato alla loro eleganza.
L’ambiente, dicevamo, è gradevole, non fosse altro che non siamo del tutto certi di non essere capitati in un frame del remake di “Essere John Malkovich”, con protagonista l’Antonino nazionale. Prodotti griffati dallo chef (dai piatti alle pentole alle tazzine al grembiule alla risottiera eccetera eccetera), nel caso qualcuno fosse tentato di costruire una lista nozze in stile Masterchef. Biscotti, vini, olio, cioccolatini, tutto Made in Cannavacciuolo. File di libri tutti uguali: sono ovviamente i manoscritti dello chef, che vengono venduti anche in collezione al prezzo speciale di 90 euro per sei titoli. Insomma, la pavimentazione un po’ optical anni Sessanta, che all’inizio ci sembrava di gusto, adesso contribuisce alla sensazione di essere sotto l’effetto di qualche sostanza psicotropa.
Abbiamo decisamente bisogno di mettere qualcosa sotto i denti: “Antonino”, già dall’aspetto, è pensato per essere un locale da asporto. Quattro piccoli tavolini da due e due soli piatti da consumare “placée”: la parmigiana di melanzane (9 euro a porzione) e i paccheri al ragù (10 euro). Tutto il resto è street food. Friggitoria, prevalentemente, ma anche qualche divagazione sul dolce (croissant e gelati da passeggio).
L’estetica della presentazione è decisamente migliorabile: tutto, al banco, è esposto nelle grosse teglie di metallo che fanno un po’ mensa scolastica o, se preferite, ristorante self service; ma d’altronde siamo in una friggitoria verace, e di certo non vogliamo formalizzarci.
Proprio sul fritto puntiamo le nostre mire, e ordiniamo un cuoppo misto (10 euro), un arancino al ragù (4 euro), una fetta di pizza di scarola (5 euro) e una fetta di una bellissima frittata di spaghetti (5 euro).
La somma fa ancora il totale, quindi andiamo a spendere 24 euro per quattro pezzi, cifra non proprio bassa, considerato che di friggitoria trattasi. Ma, ci diciamo, sarà il miglior fritto da passeggio della nostra vita.
Non ordiniamo nulla da bere, un po’ perplessi per il fatto che qui una mezza naturale (San Bernardo, eh, mica la Evian di Chiara Ferragni) costi due euro, mentre negli altri bar che abbiamo girato nell’outlet i prezzi andavano da un euro a un euro e 30 centesimi.
Scontrino fatto, ci dirigiamo al banco, dove i primi due pezzi ci vengono sporti immediatamente. “Sono caldi?” chiediamo. “Tiepidi” rispondono. Ecco, il fritto tiepido proprio non abbiamo voglia di mangiarlo, e chiediamo la cortesia di scaldarli un po’ (si scaldano con un forno ventilato, ci fanno sapere) .
Il servizio al tavolo non è previsto, e ci affacciamo a recuperare al banco quello che abbiamo ordinato. Di nuovo, rimaniamo delusi dall’estetica: se premiamo la scelta ecologica di posate e contenitori in MaterB, proprio non possiamo che provare un moto di tristezza osservando il nostro vassoietto, che più che street food fa un po’ fast food.
Come si mangia da Antonino, il Banco di Antonino Cannavacciuolo
Nel cuoppo (il cui contenuto non è stato scaldato, quindi è decisamente tiepido, e abbiamo già detto cosa pensiamo del fritto tiepido) contiamo circa una decina di pezzi, tra zeppoline di pasta cresciuta, frittatine di pasta con ragù genovese, arancini, polenta fritta, crocché di patate. Tutto quello che deve esserci, insomma, c’è, ma il risultato generale non è proprio convincente (fatta esclusione per la polentina, probabilmente il pezzo più riuscito dell’insieme). Buona parte della bocciatura è causa della temperatura di servizio, ne siamo certi, ma non possiamo che aspettarci qualcosa di più da un cuoppo di cartone venduto alla cifra di 10 euro.
Va decisamente meglio con la pizza di scarola, sulla quale peraltro siamo particolarmente esigenti (come le origini napoletane mi impongono). Buono l’impasto, buona e ricca la farcitura (l’avremmo preferita un po’ più decisa di gusto, ma questa è un’opinione personale), ed è un peccato solo un’eccessiva untuosità che, nonostante l’involucro di carta assorbente, non si addice granché a un pasto da passeggio.
Tra alti e bassi, siamo nuovamente costretti a bocciare l’arancino: una panatura poco croccante e proprio troppo secca, con all’interno un ripieno al ragù napoletano (quello con i pezzi di carne al posto della tritata) che di per sé non è male, se non fosse per il fatto che l’arancino, una volta riscaldato, risulta inevitabilmente secco e perde ogni fragranza. Insomma, un altro risultato deludente.
Abbiamo volutamente lasciato per ultima la frittata di spaghetti, comfort food del cuore, che ha un aspetto davvero invitante. Una bella porzione di pasta con uovo e salame, imbrunita all’esterno e morbida all’interno.
Per questo, stavolta, la caduta fa davvero male.
La consistenza della frittata è quella giusta: la pasta non è scotta (Dio ce ne scampi), e il tutto è abbondantemente condito. Gli spaghetti sono in realtà dei bucatini, ma può sempre trattarsi di una licenza poetica, vai a capire l’estro di questi chef.
Ma il salame, ahinoi, ha in bocca un sapore lievemente rancido (come a volte accade quando si scalda la carne di maiale, soprattutto nelle sue parti grasse).
Decidiamo di farlo presente allo staff, che – dobbiamo dirlo – reagisce in modo impeccabile (ricordiamo, nel caso fosse necessario, che siamo qui in incognito): ringrazia per la segnalazione, non prova in alcun modo a mettere in discussione quello che abbiamo detto, incassa e, per rimediare, ci propone di assaggiare qualcos’altro, per esempio la frittata di pasta alla genovese in tempura.
Ovviamente, rispondiamo di sì, e questa volta ci viene eccezionalmente consegnata al tavolo una nuova frittatina che, purtroppo, non abbiamo fatto in tempo a chiedere di scaldare e che quindi, ancora una volta, ci viene servita fredda. Oltre che sulla temperatura, avremmo da ridire anche sulla frittura, visto che fatichiamo davvero a riconoscere l’antica tradizione giapponese della tempura in questa frittatina che, al di là dell’essere eccessivamente unta e fredda, al suo interno ha un ripieno di bucatini conditi con il ragù bianco genovese, che trattato diversamente avrebbe anche potuto essere goloso.
Insomma, usciamo dal regno di Antonino Cannavacciuolo senza neanche aver acquistato un suo libro, convinti che il suo “Antonino” davvero non renda giustizia alla sua fama di grandissimo chef. Lo spazio per rimediare c’è: il locale è piacevole, il personale cortese, l’offerta invitante. Ci permettiamo di suggerire giusto un po’ meno di Cannavacciuolo-centricità, e magari un fritto più espresso, o mantenuto caldo al banco.
Ah. Per la cronaca, la giornata di shopping, almeno, è andata alla grande.