Dico io, cari ristoratori e chef, ma soprattuto illustri pizzaioli gurmé che vi tappezzate la porta a vetro dell’ingresso di riconoscimenti e patacche come camice di boy scout: state aspettando che Antonino Cannavacciolo vi insegni a fare una carta delle birre decente?
Imprenditori del chilometro azzerato con la multinazionale della birra in carta o, se va bene, un’artigianale buttata lì a mo’ di favore al cliente rompipalle, e a caro prezzo, selezionata come si sceglie la marca del bicarbonato: mentre voi credete di non dover fare i conti con l’esistenza della birra artigianale e mettete in carta crafty che scimmiottano i birrifici indipendenti – tanto in Italia chi volete che se ne accorga? – e cercate di far quadrare il bilancio con la lager spillata da un impianto in comodato d’uso, beccatevi sto schiaffo dal tele-chef di Villa Crespi.
Perché tanta acredine, direte voi, e cosa c’entra il gigante buono di MasterChef con le carte birre da incubo di pizzerie e ristoranti anche molto quotati?
Succede che ieri sono andata a mangiare al Cannavacciuolo Bistrot di Torino, stella Michelin di recente assegnazione nonché ristorante firmato dal celebre Antonino: non un prêt-à-porter macchiettistico del bistellato Villa Crespi Relais & Châteaux della serie “vorrei ma non posso” andare a Orta San Giulio, bensì un fine dining a sé, cucina à la Antonino con la tradizione in formato amuse bouche e piccola pasticceria; un bel percorso circolare, i fritti, le tartellette e i mini-cannoli realizzati in maniera speculare in versione dolce e salata, all’ingresso e all’uscita del menu degustazione. Poi la pasta secca divinamente servita: tubetti di Gragnano con vaniglia, calamaretti e passion fruit, di fatto una aglio – olio e peperoncino con la salsa del frutto usata per legare, al posto dell’acqua di cottura. Splendido.
Tra ricciola sotto sale, gnocchi in acqua di parmigiano con ricci di mare e nduja e rombo con peperone crusco, ho avuto modo di confermare il mio preconcetto sul “Bistrot” torinese. È un posto in cui vale la pena spendere 100 euro a persona (per cinque portate goderecce e impeccabili + complementi viziosi da fine dining), ma l’avanguardia gastronomica abita altrove.
Eppure, mentre ancora borbottavo rabbuiata per aver ricevuto il borghese menu “di cortesia” senza prezzi in quanto rappresentante del sesso debole, il mio commensale nonché autore di Dissapore Massimo De Marco, detentore della carta vini in formato I-Pad in quanto uomo ai tempi del Convid-19, ha notato un inserto forse proveniente dal futuro: una carta delle birre.
Vi dirò di più, una ragguardevole carta delle birre, per quanto esile, perfettamente composta. Due ottimi birrifici artigianali italiani (Hammer e Extraomnes, che spesso abbiamo citato su queste pagine) e, a seguire, breve verticale di acide; ci sono i grandi classici del Pajottenland, Lambic e Gueuze in ascesa, fino a una Gran Cru di Cantillon manco facile da reperire.
Se i prezzi vi sembrano alti, sbagliate. I ricarichi sono onesti (così come quelli della carta vini, ricca, ben articolata e coerente con il contesto, quindi non certo spinta sulle sperimentazioni o sul mondo dei “naturali”, ma certamente varia e completa, con qualche chicca assai conveniente che si fa notare all’occhio sgamato) se considerate che a 8 euro, in una pizzeria qualunque, vi capiterà di trovare referenze in bottiglia proposte alla bell’è meglio sul classico volantino rigido, selezionate male e presentate peggio, tra claim imbarazzanti e etichette desuete (doppio malto, speciali e via discorrendo).
Accade non solo nella pizzeria dalla parete spugnata d’arancio con la “patatine fritte” in carta, che ha tutta la nostra solidarietà, bensì nelle più vistose e chiacchierate gourmet, ma anche nei bistrot à la page anziché nei ristorantini patinati, che con più eleganti layout ci invitano, sottesamente, a guardare a ciò che di più economico c’è alla spina.
In altre parole, tra un’artigianale qualsiasi in bottiglia, proposta come tale, a 8 euro, e la birraccia alla mescita a 5, è prevedibile, logico, pressoché matematico che il cliente volga automaticamente lo sguardo verso le spine, a meno che non ragioni per esclusione, preferendo l’incognita esosa alla solita lager, o ne faccia una questione di principio, pretendendo un’offerta in linea con lo storytelling del locale sulla qualità.
Smetterò di annoiare il lettore e arriverò al vero punto della questione. Credo che in pochi pasteggino a Saison da Antonino Cannavacciuolo, per quanto si sposi perfettamente con molti piatti in carta, e che il maître conti sulle dita di una mano i tavoli che hanno chiesto un’acida per giocare di contrasto con i sapori partenopei, ma quanto ci vuole a prendere sul serio la birra, ad offrire al cliente anche quest’opzione, con un minimo di criterio, a prezzi non respingenti?
Nel Bistrot di Antonino, addirittura, la birra è considerata tra i percorsi di calici in abbinamento ai piatti, in caso qualcuno volesse azzardare (uhhh) senza spremere le meningi o sapere cosa sia un Lambic.
Ma quand’è che la birra è diventata una bevanda per pochi eletti?
Perché devo andare da Antonino Cannavacciuolo, tra i pochi grandi chef che intraprendono una scelta simile, per trovare una carta delle birre onesta e coerente con l’offerta, bypassando (quasi) tutta la ristorazione di fascia media, pizzerie comprese? Altrimenti, senza mezze misure, devo rivolgermi ai pub specializzati.
Antonino, redazioni televisive, chiunque stia leggendo con il coltello dalla parte del manico: forse ci vuole un “Cucine da Incubo – edizione carta delle birre” (tra le nostre recensioni di pizzerie trovate parecchi soggetti papabili). Magari tra una pacca e un “Addios!” smettiamo di bere male.