L’autorevole e compassata Treccani alla voce “carampana”, recita “[forse dal nome della Ca’ Rampani, palazzo nobiliare e poi rione assegnato dalla Repubblica di Venezia ad abitazione delle prostitute], region., volg. – Donna volgare, sguaiata, oppure brutta e vecchia”. E’ un peccato che la succinta definizione dell’enciclopedia non approfondisca per bene la questione, che merita almeno due chiose, una destinata agli amanti dei dettagli pruriginosi, l’altra agli amanti del buon cibo. In effetti il valore delle Antiche Carampane, ristorante di Venezia meta di questa recensione, è tale da ambire a riscrivere la definizione della Treccani. Ci permettiamo di suggerire qualcosa tipo “Ristorante storico di Venezia. Luogo identitario per cultura e gastronomia”.
La storia
Venezia, sestiere di San Polo. In una manciata di calli si concentra una parte della storia della cortigianeria cittadina, di cui resta traccia nella pittoresca toponomastica. Se il Ponte delle Tette non lascia molto spazio all’immaginazione – aggiungiamo solo l’appunto che, con lo scopo di contrastare l’omosessualità diffusa in città pare che il governo della Repubblica avesse imposto alle prostitute di mostrare i seni per invogliare i passanti – più interessante è la storia del Rio terà (cioè interrato) delle Carampane. Nel 1872 Giuseppe Tassini, storico, pubblica “Curiosità veneziane, ovvero Origini delle denominazioni stradali di Venezia”, imprescindibile volume per chi voglia conoscere la città. Qui il toponimo è spiegato per bene e consente di arrivare ad accomodarsi alle Antiche Carampane godendosi, oltre al menu, anche il logo sornione stampato sui piatti che in pochi e gentili tratti raffigura una donzella dalle forme generose. Ecco quanto si legge: “Fino dal 1358 si prescrisse che i Capi di Sestiere dovessero rintracciare un locale a Rialto per concentrarvi le meretrici. Le abitatrici si sparsero, col progredire del tempo nel quartiere detto “Carampane” da “Ca’” (casa) e “Rampani”, cognome d’antica famiglia patrizia, che colà possedeva alcuni stabili. Ad onta che molte di tali donne si trovassero un tempo in Venezia, v’infieriva il vizio della sodomia, laonde si dovette non solo tollerare, ma prescrivere, come accenneremo anche altrove, che esse stessero sulle porte ed alle finestre lascivamente scoperte, mentre una lucerna illuminava di sera il curioso spettacolo. Che se tanto prescrivevasi perché gli uomini, allettati ad un vizio minore, da un maggiore venissero distolti, severissime leggi fatte in diversi tempi, e che si possono dire epilogate nel decreto 13 agosto 1644, raffrenavano le prostitute. Non potevano esse aver casa sopra il Canal Grande, né pagar più di ducati 100 di affitto; non andar per Canal Grande all’ora del corso, e vagar per la città in barca a due remi; non entrare in chiesa nelle solennità, perdoni, od altri concorsi di devozione; non portare il “faziol bianco da fia” (manto, od accappatoio da donzella); non ornarsi di oro, gioie, e perle buone o false ecc. Erano escluse finalmente (e tale sorte avevano ancora i ruffiani) dal far testimonianza nei processi criminali, e non venivano ascoltate qualora avessero domandato in giudizio il pagamento pei servigi prestati”.
Approfondita la storia della zona, più interessante è sapere che nello stesso luogo che oggi ospita le Antiche Carampane, un tempo aveva sede una locanda che dava ristoro ai frequentatori dei bordelli. Divenuta poi più prosaicamente osteria per operai, nel 1983 viene rilevata da Giovanni Bortoluzzi, insieme al fratello Guido e alla sorella Piera, segnando l’inizio di un nuovo corso. Oggi, a raccogliere l’eredità di una gestione solidamente familiare è Francesco Agopyan, figlio di Piera.
Il locale
Due o tre tavolini all’esterno, una porta di vetro e legno doppio battente, due lampioncini ad illuminare le vetrinette con il menu esposto. L’esterno delle Carampane, con la sua sobrietà, la presenza di elementi essenziali e l’assenza di inutili orpelli a strillare la venezianità turistica, preannuncia quanto si trova all’interno e lo stile di una gestione che fa del basso profilo, della correttezza e della professionalità i suoi tratti distintivi. Il resto lo fanno arredi, spazi e dimensioni: ridotte le ultime, ad incastro i secondi (con un tavolo sulla sinistra, la cucina a destra che lascia intravedere il personale che si muove alacremente e senza strepiti, e il suggestivo bancone di fronte), ed estremamente caratteristici di primi. Oggetti alle pareti che richiamano le origini del locale, tavoli minuti cui tovaglie bianche portano rispetto, quadri e soprattutto specchi, dei quali i conoscitori di Venezia non faticano a riconoscere la mano d’artigianato locale. Oltre all’ingresso, un’unica sala che restituisce non solo l’idea ma l’effettiva concretizzazione di quella che comunemente ed in modo spesso abusato viene definita “atmosfera”. Il risultato, sorprendente, è che un luogo del genere riesce non solo a risultare autentico per i turisti ma riesce ad esserlo, dettaglio ben più rilevante, per i veneziani che lo frequentano con affetto, piacere, stima.
Il menu
A scorrere la lista dei piatti, due i dettagli che colpiscono: il numero, piacevolmente limitato, delle proposte (una quindicina in tutto, tra antipasti, primi e secondi, cui si aggiungono i dolci, un po’ più numerosi), indice di freschezza e della tanto millantata “cucina secondo la disponibilità del mercato”; e la presenza di alcuni piatti di cui si è più spesso favoleggiato o letto nei libri di storia locale che assaggiati: è il caso degli spaghetti “in cassopipa” e del ragù di “secoe”, due proposte che prima ancora che il cuore del cliente aprono quello dello storico della cucina, per quanto sono tipiche e radicate. Una scelta coraggiosa e controcorrente, confermata anche da altri dettagli: la presenza di ingredienti regionali che sono vere e proprie nicchie (il mais Biancoperla e il broccolo fiolaro di Creazzo, delizia De.Co del vicentino) e la scelta di inserire in carta anche ortaggi che provengono dall’orto condiviso a Sant’Erasmo, del progetto Osti in orto.
L’impressione complessiva che se ne ricava, e che sarà pienamente confermata all’assaggio, è quella di una cucina fieramente identitaria, classica e corretta nell’accezione più pura del termine ma inserita nella contemporaneità grazie a piccole pennellate di gusto: alleggerimenti, cotture rispettose, salse ad accendere i sapori, presentazioni attente alle note cromatiche, sapori sfaccettati ed articolati ma estremamente riconoscibili. I prezzi vanno dai 23-28 euro per gli antipasti, ai 24 per i primi, ai 24-27 per i secondi. Dolci tra i 9 ed i 14 euro. Carta vini di ampio respiro, con sguardo regionale, nazionale ed europeo. Nota di merito per il servizio: attento, con spiegazione dei piatti capace di cogliere l’interesse del cliente e, eventualmente, fornire indicazioni più dettagliate. Senza tenere lezioni di cucina o geografia, che finiscono spesso inevitabilmente per innervosire e far raffreddare il piatto.
I piatti
Tra gli antipasti la granseola a Venezia è accompagnata sempre da un destino teatralmente vetusto: debitamente curata, è sempre servita nel suo guscio, particolare che servirebbe a sottolinearne in modo eloquente la freschezza. E’ quindi con sollievo ed estrema felicità che si assiste in questo caso ad una riscrittura delle regole: l’insalata di granseola e gamberetti, accompagnata da puntarelle e radicchio, non trova la sua freschezza nella forma bensì nella sostanza. I sapori sono puliti, vivi, guizzanti, con la dolcezza e la morbidezza dei crostacei a trovare bilanciamento nelle verdure e nella loro croccantezza. Il velo di salsa rosa alla base, delicatissima, farebbe storcere il naso ai detrattori degli anni ’80: a costoro si consiglia l’assaggio e il silenzio. Tra i primi, gli spaghetti in cassopipa, come detto, rimandano ad un passato glorioso. Di origine chioggiotta, la ricetta prende il nome sia dal nome della pentola di coccio usata per la preparazione, cassariola o casso, sia dal tipo di cottura degli ingredienti, che devono “pipare”, cioè cuocere lentamente sobbollendo. Originariamente piatto di pescatori, vedeva utilizzati tutti i molluschi a disposizione dopo la giornata di pesca. Per il tipo di cottura e per un sapore assai particolare, il cassopipa è un piatto che è stato progressivamente abbandonato dai ristoranti: resiste solo nelle cucine di alcuni valorosi ed è un peccato perché consentirebbe di uscire dall’omologazione e permetterebbe di far conoscere meglio il passato della città. Al netto degli approfondimenti storici, la versione qui proposta rappresenta eleganza, complessità di sapori senza sconfinare nella confusione, e finezza. Il compito di chiudere la narrazione spetta alla cannella, presenza sottile: chi è in cucina ha studiato ma non sbandiera cultura. Il filetto di San Pietro è un abbandono della banalità di un’offerta che vede il pesce stretto tra griglia e frittura. Qui, oltre alla qualità delle carni, sode e saporite, c’è una cottura rispettosa (sia del pesce che delle verdure di accompagnamento), un’attenzione all’uso degli accostamenti di consistenze (morbido del filetto-croccante del cavolo cappuccio viola e delle primizie, tra asparagi e piselli) e di colori: la presenza di creme (piselli, peperoni, topinambur, carote) non è solo orpello estetico ma aggiunge carattere e identità. La chiusa è affidata ad una terrina di cioccolato: il biscotto di mandorla sfugge alle insidie frequenti della spugnosità della pasta biscuit, il cioccolato rivela finalmente un sapore pieno che non sia solo inutile dolcezza ma in cui il fondente è percepibile e la composta di mango e ananas aggiunge la nota di freschezza. E’ un piacere constatare come non manchi nulla.
In chiusura, due piccole note: i volti degli avventori e il bagno. Guardando i primi la sensazione è stata quella di essere immersi nel pranzo di Babette. Il secondo è una piccola perla: minuscolo, ma – parafrasando un’espressione di solito utilizzata per i piatti – vale il viaggio.
Opinione
Un indirizzo di riferimento in città che, forte di una solida gestione familiare, ha saputo gestire con intelligenza e cultura l’eredità ricevuta. La carta si muove nel solco della tradizione ma i piatti acquistano una identità nuova, che dialoga con la dimensione della contemporaneità senza estremismi. Un ambiente caratteristico e una conduzione estremamente seria e professionale chiudono il cerchio.
PRO
- La presenza di piatti della tradizione a rischio oblio
CONTRO
- Le dimensioni del locale, purtroppo contenute