Vorrei che fosse Amor, amore quello vero, la cosa che io mangio, e che mi fa sognare un Trapizzino. Vorrei potervi dire che l’ho amata da morire, perché è soltanto questo che ho letto nelle anteprime della stampa. Perché lo sapete, cari lettori, che tra l’annuncio strombazzatissimo di un’apertura come questa (la pizzeria degli Alajmo in corso Como 10, Amor a Milano), l’articolo entusiastico post party inaugurale, e una recensione, c’è di mezzo un mare, o quantomeno una laguna veneziana.
A una decina di giorni da quella che è, di già, una delle inaugurazioni più comunicate del 2019, mi è venuta voglia di pizza al vapore. Scherzo, dai, ci riprovo. Ho atteso invano per un paio di settimane un’opinione che fosse una sulla nuova pizza brevettata dei fratelli Alajmo – sì, hanno brevettato la pizza al vapore, qualcuno abbia il buon cuore di mandare un mazzo di fiori a Renato Bosco – , ho aspettato che i forni à cloche dorati – brevettati anch’essi – del nuovo locale di corso Como venissero rodati per benino e sono andata a provare il nuovo fast casual* milanese.
*Fast casual – espressione utilizzata da chef stellati avveduti e imprenditori della ristorazione in genere per prendere le distanze a priori da qualunque associazione malevola con il fast food. Si consumano piatti veloci e ci si serve al bancone, ma si spende di più, a fronte di una promessa di qualità maggiore; Sono stato da Bomba, il fast casual di Niko Romito, e ho fatto un post su Instagram.
Dunque eccomi al numero 10 del corso. Nemmeno il tempo di osservare la scenografia d’ingresso, tappezzato di maschere veneziane disegnate da Philippe Stark – un omaggio ben riuscito alla città o una trasposizione creepy del simbolo dei Venezia? Sto per entrare nell’incubo lisergico di Dumbo trasportato in Totò Sapore? – che un’energica promoter, forse esortata dalla mia titubanza, mi invita ad assaggiare la nuova pizza al vapore dei fratelli Alajmo, esposta in posa plastica. Ma io, tanto, sto giusto entrando.
Il locale è bellino, invece, altroché incubo. Tavoli conviviali, come si dice, in legno chiaro – distanziati forse troppo poco per il passaggio dei clienti con vassoio -, tanto oro, maschere sulle pareti e un grande banco per le ordinazioni, dietro al quale un pannello digitale alterna il menù a spot che, a spot per l’appunto, disturbano la lettura.
Altro schermo, altro spot: a destra del bancone i fratelli Alajmo fanno cucù dalle maschere, si compiacciono, si stupiscono del loro stesso medesimo prodotto, in un video emozionale – si dice così? – trasmesso ininterrottamente.
I prezzi di Amor a Milano
Volti, loghi, il brand è ovunque: il prezzo da pagare al bistrot dello stellato? Prendere la pizza da asporto per farsi mezza Milano con una borsa brandizzata da un tre Stelle Michelin? Sgranocchiare un briciolo di “alta gastronomia” per sentirsi parte di quel mondo? Allora, il marchio è il prezzo da pagare?
O anzi no, il prezzo è 4,5 euro (a partire da..), per uno spicchio che, su per giù, corrisponde a un sesto di “pizza gourmet“.
Giusto per completezza, la “Croccante” – al vapore e poi ripassata in forno, una piccola pizzetta tonda – costa 6,5 euro e il “Masscalzone” – che davvero non ho voglia di provare, a giudicare dalla vetrina – viene 7 euro.
La pizza al vapore di Amor
Mi concentro dunque sul prodotto di punta, frutto di uno studio decennale stando alla letteratura già esistente in merito, e ordino una “Amatriciana” (mozzarella, percorino, salsa amatriciana), direttamente al banco.
Il servizio, che dovrebbe limitarsi al piatto allungato sul vassoio, è di una cortesia inaspettata. Inaspettata per un “non fast food“, si intende. Di fronte al mio dubbio, esplicitato, mi vengono suggerite le pizze da provare – per comprendere al meglio la produzione del posto – molto gentilmente, e quando finisco la mia bevanda – un’ homemade soda “limone e pino mugo” con cannuccia in bambù, che mi costerà la bellezza di 4 euro e che non capirò mai con quale pizza sarebbe bene abbinare – le “non cameriere” hanno l’attenzione di portarmi al tavolo acqua fresca a gratis, chiedendomi addirittura se io preferisca la naturale o la frizzante, perché “mica si può continuare a mangiare pizza all’asciutto”. Ho ordinato tre “pizze”, in tutto, e me le hanno portate al tavolo in tutti i casi. “C’è poca gente, accomodati pure”.
La mia pizza al vapore, però, è una spugna. I miei coinquilini romani avrebbero detto “pezza da piatti pregna”. Non apprezzo l’assenza della reazione di Maillard, che tende quasi ad annullare il sapore della base, né trovo il topping tanto clamoroso da apprezzare la neutralità dell’impasto umido, troppo umido. Un omaggio a Venezia, un omaggio all’umidità?
Sull’ “acciughe e chorizo” (acciughe del cantabrico, chorizo, stracciatella, finocchietto, zafferano) sarebbe meglio stendere un velo pietoso. Potrei dire che è difficile percepire nettamente gli ingredienti, che l’impasto, a conferma di quanto detto prima, è tutt’altro che una nuvola di piacere, se non fosse che ho trovato un capello, perfettamente incastonato tra il formaggio e il salame. Non facciamone un dramma, per piacere: può succedere e sono certa, certissima, che se avessi alzato un dito facendo presente la cosa mi avrebbero cambiato il piatto, offerto il pasto e si sarebbero genuflessi in cinque, considerando il livello del servizio. Ma non voglio attirare troppa attenzione e proseguo, chiedendo un dessert.
Mi suggeriscono il “Masscalzino Crema eccezzionale“, un piccolo calzone alla curcuma con nocciole, cacao e crema pasticcera (4 euro). Crema incandescente e dal sapore sconfortante, curcuma non pervenuta, base dalla textute biscottata. Niente di che, niente di eccezionale.
Meglio la “Vegana” (base al riso nero, ortaggi di stagione, semi misti), pizza al vapore che ho preso da asporto – data l’assenza di formaggio mi sembrava la più trasportabile – che ho trovato quantomeno piacevole, bella a vedersi e interessante, probabilmente il miglior assaggio fatto, ma non sufficiente per ritenere la proposta all’altezza di quanto promesso.
Boccjato.