Se fossi una di quelle che scrive recensioni di ristoranti in lingua stilnovista, direi che quel piatto si librava leggiero come un piccione nell’aere. So che il piccione per voi non è come Beatrice per Dante e che la similitudine non è proprio raffinata, ma ora voi dovete fare lo sforzo di dimenticare il pennuto grigiastro e spennacchiato di Piazza Duomo a Milano e spostarvi di pochi chilometri fino al Ristorante de Al Mercato.
E’ qui che il vostro concetto di piccione potrebbe avere un’impensabile rivalutazione.
Finora ve ne avevamo parlato per l’hamburger, visto che crediamo sia il migliore in circolazione a Milano, ma Al Mercato non è solo chicharrones e panini.
Fate conto una cucina a vista: . In mezzo, dicevamo, la cucina: non di quelle fredde da 2001 Odissea nello Spazio, ma una di quelle vissute con fiamme e fumo.
La cucina, da Al Mercato, è un po’ come uno spartiacque: da una parte ci sono i piatti dello Stilnovo 2.0 (una sorta di Paradiso dantesco contemporaneo per golosi, ché esserlo oggi non è più peccato), dall’altra ci stanno le rime petrose ataviche (una specie di Inferno in chiave speziata, piccante e pure un pochino assassina).
Se domani sera decidete che non avete voglia di hamburger, allora sappiate che dall’altra parte della cucina, solo 7 passi più in là, troverete ben altro: qui vi toccherà rimescolare le carte del menu convenzionale, quello fatto di antipasti, primi e secondi.
Potete mixare carne con pesce, tradizioni con americanismi, porzioni medie e piatti di sostanza. Insomma, tutta roba gourmet, ma senza imposizioni di chef primedonne che scelgono per voi.
Il gioco di comporre il vostro puzzle personale solo con quello che avete voglia di mangiare, senza schiavitù da portata, potrebbe essere divertente, soprattutto se i piatti sono buoni. E qui sono buoni e pure belli.
L’amouse bouche, ad esempio: spesso si tratta di una cosina, sì carina, sì buona, ma alla quale si concede poca attenzione. Stavolta, invece, mi sono trovata davanti a un “piatto” vario, curato, gustoso: quattro bocconi in omaggio alla Spagna.
Ci si diverte pure, cosa che certo non guasta: ci sono Beniamino Nespor ed Eugenio Roncoroni (i due chef) che prendono un po’ in giro le fissazioni dei gourmet anzianotti: ad esempio mettono dentro una scatoletta “Caviar imitation” una cosa che non c’entra nulla (ma non vi dico cosa, se no che gusto c’è?)
Abbiamo già detto che non c’è una logica scritta nella roccia del menu tradizionale, un po’ come funziona in Francia. Ma per quelli di voi che senza il primo devono ficcare la testa in un sacchetto e respirare forte (sia mai!), sappiate che ci sono due o tre primi piatti solo per non farvi venire una crisi d’ansia, anche se il consiglio è quello di scegliere non tanto facendovi guidare dalle vostre manie di controllo, anzi piuttosto spaziare, assaggiare, scegliere “a naso”.
Tipo iniziare dal sushi (un mix di pesce, ma pure di carne, ma pure di consistenze, ma pure di scala di sapori): spuma di riso, ventresca di tonno, capasanta, ricci di mare, seppia, anguilla, wagyu con uova di quaglia pochè.
Poi passare al piatto vegetariano, dove non avrete il verde broccolo a fare da monocromo nel piatto: vince il giallo (e pure la batosta di gusto) del formaggio, e poi arrivano i semi, la yucca e la zucca.
E poi c’è “la felicità di Ciacco”, per tornare al girone dantesco: il piccione.
Il petto, cotto non un secondo in più del necessario, e pure la coscia ripiena di tartufo (che vi farà rimpiangere il fatto che un piccione non ne abbia 4, di zampe) che tira fuori l’animale che è in noi dato che vuole essere mangiata con le mani. Che importa se poi imbrattate il tovagliolo?
Lasciatevi andare, ne vale rigorosamente la pena. Roba da tornare anche domani sera.
Se da “quelli del Mercato” vi aspettate anche qualche frattaglia, l’animella con salsa bernese è un altro tassello del puzzle sull’onda emotiva del di tutto un po’.
E se invece volete un altro classicone carnivoro svecchiato datevi all’oca con lavanda, brunoise di tuberi e salsa ai frutti rossi.
Potete anche finire dimenticando i dolci per dentiere deboli e tuffarvi nel gelato al melograno e apoteosi di tuberi: dessert non certo stucchevole per masticatori indefessi.
Non importa se di Dante non vi ricordate manco una terzina: mangiate il piccione, scegliete altre cose da assaggiare e lo rapperete in rima baciata sulla via del ritorno, in onore a una cucina che guarda alle basi ma riesce sempre a declinarle in versione antiage, come una crema che toglie le rughe.
Nota di merito: la cucina è a vista, molto a vista. Nonostante tutto, tornerete a casa immacolati senza olezzi di piccione a ricordo della cena, il che non è sempre del tutto scontato. I vestiti ringraziano.
[Immagini di Aromi Creativi e Carlotta Girola]