Che ne sappiamo noi comuni mortali, ingabbiati nelle ristrettezze dei circuiti cognitivi inferiori, che vedendo un locale vuoto speriamo di poterci sedere per leggere o fare smartworking dove caspita ci pare? Magari in quell’angolino indorato dall’ultimo raggio di sole, o in quella panchetta al riparo dall’acciottolio di stoviglie e bicchieri proveniente dal bar. Mica solo i gatti hanno il loro posticino di casa preferito, dalla logica spesso imperscrutabile.
“Ti puoi spostare dall’altro lato”? Il tono della cameriera di Hygge, caffè di ispirazione scandinava in centro a Milano, è meccanico e lontano (la mascherina non la aiuta). Il tavolo condiviso del locale, quasi vuoto, è enorme, e seduto ci sono solamente io. Mi esce naturale un no. Dopo dieci minuti ripete la richiesta, questa volta il tono è perentorio e mi arrendo. Le misure di distanziamento non c’entrano. Tento un altro colpo, a questo punto più per masochismo che altro, o per spirito di scoperta. Posso spostarmi in uno dei piccoli tavoli rotondi? “Sono tutti prenotati”. Il locale avrebbe chiuso dopo circa due ore e i tavolini rotondi sarebbero rimasti quasi tutti vuoti.
Hygge in Danese significa grosso modo gioire del calore e dell’intimità nelle piccole cose. In un caffè di Copenaghen ad esempio, o di Berlino, o sinceramente di qualsiasi altra città, significa prendere posto dove ti pare, ordinare una fetta di torta fatta in casa, decidere lì per lì se aprire un libro o magari lavorare un po’ al pc; se stare 20 minuti o tre ore.
C’è la nuova Milano, che anela a essere molto hygge, inclusiva, libera e destrutturata, dove le nuove tendenze sociali come il lavoro agile sono accolte e incentivate. A questa, fa ancora da zavorra la vecchia Milano, che resiste, soverchiata dai vecchi e tristi cliché, dall’ossessione macchiettistica per l’efficienza e il “fatturare, f!ig@”. Nel caso specifico, parlerei di inutile e ingenuo interventismo che, anche dovesse portare due lire in più nelle casse dell’esercizio commerciale, di sicuro ne lede la reputazione e l’appeal a lungo andare.
Certo quando hai la beffa di chiamarti Hygge, l’ironia è particolarmente tragica, ma la tendenza è dilagante. Da Librosteria, bar e libreria in zona Canonica, lo schermo alzato è no-no dopo una certa ora perché capisci devo far girare i tavoli. Da Feltrinelli in piazza Gae Aulenti la supervisione del complesso reticolo geometrico che governa la suddivisione dei tavoli tra “computer OK” e “computer NO” è affidata a una persona preposta. Cioè fa solo quello. Naturalmente i tavoli computer-friendly sono i più sfigati, lontani dalle finestre e a ridosso della confusione del bar. Ma in una libreria, lo studio, il lavoro, il tempo lento, non dovrebbero essere prioritari rispetto al rapido turn-over di chi solo consuma al bar? Potrei continuare con altri cento esempi quotidiani.
Cari gestori, un’umile proposta: lasciate che il caos creativo si impadronisca di voi (nei limiti ragionevoli, eh). Abbiate un po’ di fiducia nel genere umano, che se una sta tre ore ordinerà più volte. Se uno arriva a lavorare alle 12, il pranzo te lo fa comunque. O magari mettete doppia consumazione o pranzo obbligatori. Ma liberatevi dell’orchestratore compulsivo di geometrie e incasellamenti che è in voi e godetevi, all’unisono con i clienti, l’ambiente sciolto, intimo e molto più gradevole che si andrà a generare spontaneamente. Tenendo sempre a mente una triviale verità. C’è solo una cosa più importante dei profitti: i clienti e il loro benessere.
Comunque, tornando a quel banale pomeriggio invernale, sono le 5 passate, Hygge sta per chiudere, il tavolo rotondo che tanto avrei voluto ma che era prenotato (hm…) è rimasto sempre libero. Mi dispiace davvero, chiedo: ma almeno hanno chiamato per disdire? O forse si sono persi qua intorno, li vado a cercare? Non è vero, non dico niente. Una botta improvvisa di zen e pacifismo mi investe, me ne vado a casa e basta, senza neanche sbattere la porta.