A leggerne il nome nel menu – “Acquadelle in salse” – l’idea è quella di un piatto che fa di due unici ingredienti il suo tratto distintivo. Si lavora di sottrazione, verrebbe da dire, trovando una perfetta corrispondenza tra il piatto ed il suo autore. Siamo al Glam, ristorante due stelle Michelin all’interno di Palazzo Venart, luxury hotel veneziano affacciato sul Canal Grande. Appartiene alla galassia di locali di Enrico Bartolini, lo chef che conta più stelle in assoluto nel panorama gastronomico italiano, ma la cucina del Glam è nelle mani di Donato Ascani: sue sono le acquadelle – per le quali altri parlerebbero di signature dish o piatto iconico e che qui invece, rispettando il basso profilo dell’autore ci limitiamo a definire “un classico” – sua è la capacità di far sembrare semplicemente godibile e piacevole un piatto dalla complessità notevole, che si presterebbe ad un’operazione di decodifica e di analisi su più livelli se non fosse che alla fine, per fortuna, si smette di pensare e ci si affida alla pura dimensione sensoriale.
Cosa sono le acquadelle
Le acquadelle, o latterini (parlarne al singolare avrebbe poco senso) sono pesci di piccole dimensioni diffusi in particolare nel mare Adriatico e in prossimità di zone lagunari o foci dei fiumi. I nomi dialettali sono molti, altrettante le ricette tipiche, spesso volte a mettere in luce un ruolo che non è da fuga solitaria sotto i riflettori ma di gregario: in fritture, zuppe, accostate ad altre per un condimento di una pasta, le acquadelle stanno al loro posto e non sgomitano per emergere. Chi ha pensato per loro ad un diverso destino è stato appunto Ascani che non soltanto le ha rese, visivamente ed esteticamente, soggetti da primo piano e non minutaglia nel mucchio, ma ne ha moltiplicato dapprima l’identità grazie all’uso di farine aromatizzate, e poi il gusto attraverso salse e polveri.
Farine aromatizzate e salse
Il destino scelto è quello della frittura, il rimando guarda al classico cartoccio di pesce, il risultato sono le due stelle Michelin.
A vestire le acquadelle ci sono tre farine aromatizzate: verde, con alloro per le note balsamiche e amare; rossa, con la paprika a conferire il dolce; nera, con la sapidità conferita dal nero di seppia. A richiamare i caratteri delle farine sono le polveri, che non hanno un ruolo meramente estetico ma giocano di rimbalzo: polvere di alloro e polvere di peperone dolce di Senise, peperone crusco coltivato in provincia di Potenza. A tenere le fila, tra rimandi tradizionali e riferimenti orientali ormai completamente sdoganati, le salse: carpione, per le note agrodolci, quella al limone salato, quella al nero di seppia e la salza ponzu per l’umami. Il gioco di richiami, declinazioni e traduzione in consistenze differenti degli stessi sapori primari tuttavia non termina, ma si sposta dal mare al mondo vegetale.
Le erbe
Il grande non detto di questo piatto, il riferimento fondamentale che non compare nel nome ma che rappresenta l’elemento discrimine tra un piatto godibile e uno memorabile sono le erbe. Più spesso orpello o dettaglio utilizzato a mo’ di belletto, in frammento, come condimento estetico più che gustativo, come nota a margine per segnalare il carattere green, vegetale o sostenibile di un menu, qui le erbe sono protagoniste tanto quanto le acquadelle e con esse – oltre che con le salse – portano il piatto ad un livello superiore, dove le une e le altre trovano una nuova e più nobile identità.
Le erbe arrivano a completare il percorso tracciato dalle acquadelle e dalle salse, conducendolo a compimento. Le note sono quelle amare, piccanti/acide, balsamiche, per le quali Ascani si è rivolto a Marco Bozzato, imprenditore agricolo a Cavallino Treporti, che ha dato vita ad un’azienda, Verbezia, in cui coltiva più di 50 varietà di piante e fiori commestibili i cui semi arrivano da tutto il mondo. Un sodalizio più che una collaborazione, quella tra i due, che sfocia in un sentire comune e nello stesso modo di trattare la materia prima, soppesando, evitando gli eccessi e lasciando che ad emergere siano solo pulizia ed equilibrio.
Ecco allora nepetella, menta ananas, cerfoglio, maggiorana, basilico liquirizia, finocchio di mare per i toni balsamici; rucola selvatica, germogli di tarassaco e cicoria per quelli amari; acetosa scudo, oxalis rossa, acetosa variegata per quelli acidi e santoreggia, senapi, nasturzio per i piccanti. Le salse fanno da base, dando alle erbe il supporto necessario per far sì che esse ritornino al momento della coltivazione, prima della raccolta, in una sorta di “orto dei semplici”. La delicatezza delle foglie trova sponda nella croccantezza delle acquadelle, e i toni vegetali vengono amplificati da quelli delle salse, che li fanno rimbalzare.
Quando il piatto arriva al tavolo, l’effetto è quello di una tavolozza raffinatissima. Osservare quello che accade dopo è interessante, socialmente e gastronomicamente. Il piatto ha una chiara identità conviviale e il modo in cui ogni commensale assaggia dice molto. Niente forchette, ovviamente: l’occhio studia e sceglie, le dita raccolgono il boccone pescetto-erba-salsa e, andando oltre la dimensione a volte forzatamente ludica che accompagna certi piatti fine dining, qui ognuno è libero di apprezzare come vuole fino alla fine, con le dita a raccogliere tutto, lasciando una scia educata per “non sembrare volgari” o facendo scarpetta.
Il piatto è una costante del menu, ma non è costante: il suo valore gastronomico è dato proprio dal continuo mutamento. Se i pilastri balsamici, amari, piccanti/acidi rimangono solidi, a cambiare secondo la stagione sono le erbe, dando la possibilità, a chi si siede al tavolo ma anche a chi lavora in cucina, di esplorare un universo vegetale dalle potenzialità quasi infinite.