L’8 marzo sarebbe d’uopo l’agiografia dell’eccezione, per rinfrancarsi. Le sette fatiche della chef che ce l’ha fatta, la seconda vita della vignaiola radicale che si è emancipata dalle DOCG e dalla cantina che la sfruttava, la pizzaiola pluripremiata che è riuscita persino a fare dei figli, la birraia che si è meritata il rispetto dei birrai, la panificatrice stacanovista che si è aperta una catena. Donne eccezionali, giust’appunto, che con la loro straordinarietà si sono meritate una quota rosa in qualche guida.
Ma mentre si esalta l’anomalia della donna capa in cucina, osservando nuovamente che la cucina era donna finché non è nato il ruolo dello “chef”, capo per definizione, si fa pure un po’ di benaltrismo. Perché in questo stesso settore gastronomico, dominato da firme femminili, si lasciano agli uomini gli oneri dei ruoli di comando. Eccezioni escluse, s’intende.
Così oggi ci evitiamo lo straniante effetto che fa leggere di precariato dalle penne dei giornalisti: lo stesso paradossale schema vale anche qui, nella stampa gastronomica, dove la maggior parte delle donne fanno il compito di fatica, dalla bassa manovalanza alla vice-direzione, che è il più grande degli oneri. Si raggiunge, quando va bene, il rassicurante travaglio quotidiano del coordinamento editoriale, lasciando il ruolo di facciata a un uomo. Dietro un bravo direttore, c’è sempre una brava vice. Una co-conduttrice, al massimo. Una che si fa il mazzo, si intende.
Con l’aggravante che comporta la (naturale) classificazione della scrittura gastronomica: le donne direttrici sono, spesso, a capo di testate e siti web culinari, che si occupano di ricette più che di attualità. Le notizie, la critica della ristorazione, le interviste di spessore, sono cose che si lasciano molto volentieri ai giornali diretti dai maschi.
Sì, se siamo rompicoglioni è (anche) perché siamo donne
Che palle. Quanta pesantezza. Ma possibile che dobbiate sempre fare polemica?
Le voci dei commenti sotto all’ultimo post in cui abbiamo raccontato la banalità dei cioccolatini per la festa della donna di Carlo Cracco dicono soltanto questo, e sono solo l’ultimo degli esempi che potremmo fare. Suvvia, perché vi indignate se un uomo vi rappresenta con rossetto e profumo e, d’altra parte, voi il rossetto lo usate, no?
E fatevela una risata. Ogni donna, durante la sua vita, si è sentita ripetere questa frase ogni volta che pretendeva più rispetto e più serietà nel trattarla.
Perché se sei donna, serietà significa non saper ridere.
Le conseguenze di un giornalismo gastronomico al maschile
Questo è un problema: noi non abbiamo più voglia di ridere.
Anche nel nostro settore, quando ci imbattiamo in operazioni gastronomiche di pinkwashing, o quando critichiamo uomini (di potere) che si comportano da tali. Ed è importante smettere di ridere su queste cose, perché se la componente maschile è dominante sia nella gastronomia fatta che nella gastronomia scritta, la visione femminile rischia di perdersi.
Rischiano di perdersi le donne chef, ma rischia di perdersi anche lo spirito critico nei confronti degli atteggiamenti non paritari – o peggio, tossici – che un mondo a visione predominante maschile potrebbe avere, o alimentare. Per dire: se alla critica gastronomica si rimprovera spesso di avere un’eccessiva sudditanza nei confronti dei grandi nomi della cucina, questo forse è altrettanto vero se subentra una certa “solidarietà maschile”.
Un caso su tutti, quello della denuncia di stalking (finita in patteggiamento) di Giorgio Pinchiorri: quanti, a suo tempo, affrontarono l’argomento con la giusta risonanza che una notizia del genere aveva? E quanto racconta questo di uomini che considerano rompicoglioni le donne che non sono capaci di farsi una risata? La risposta è in chi ne ha scritto: noi di Dissapore, guidato da una donna, Munchies, sezione food di Vice allora diretto da Roberta Abate e Cibo, inserto di Domani, in quel momento diretto da Sonia Ricci e Jacopo Cossater su Intravino.
Ci sono casi anche più gravi, nell’alta gastronomia. Casi di chef che vengono portati su un piedistallo nonostante nella loro vita (privata, ma anche professionale) abbiano avuto atteggiamenti del tutto deprecabili nei confronti delle donne. Casi che tutti conoscono, nel settore. E se nessuno comprensibilmente li cita – il rischio di una denuncia per diffamazione esiste – tutti continuano a tenere ben saldo quel piedistallo, e questo non solo non è comprensibile, ma è inaccettabile.
Ecco: noi non lo facciamo. In quanto giornaliste, in quanto persone, e anche in quanto donne.
Perché le donne scrivono ma non comandano?
Queste sono solo alcune delle conseguenze di uno dei tanti mondi – quello del giornalisti gastronomici – dominato da una visione maschile, quantomeno nei ruoli che contano veramente.
Non ce l’abbiamo con i colleghi che quei ruoli li hanno lecitamente occupati, sia chiaro. Ma non possiamo non chiederci quanti di loro si rendano conto della grandissima componente femminile della loro redazione che, perennemente un passo indietro e spesso senza grandi prospettive di crescita, svolge il proprio lavoro.
Le motivazioni sono diverse, certo, e hanno anche a che vedere con le problematiche intrinseche di un lavoro spesso mal pagato, considerato da molti un hobby più che un impiego reale (vista anche la difficoltà per un collaboratore pagato a pezzo, a fine mese, di portare un compenso dignitoso a casa). E la verità è che purtroppo viviamo ancora in una società in cui, all’interno di una coppia, chi può permettersi di guadagnare meno senza rischiare di deludere le aspettative collettive è solitamente la donna. È la donna che può considerare il lavoro un optional, tra una poppata e una faccenda di casa. La visione è volutamente provocatoria, ma crediamo che racconti molto di uno stato dell’arte su cui ci siamo interrogate a lungo. Perché sono le donne (in larga parte) a scrivere di gastronomia e molto meno spesso sono le donne a “comandare”?
Forse perché loro possono farlo. Possono dedicare – nella visione sociale del loro ruolo – del tempo alla scrittura, indipendentemente da quanto guadagnano. Ma quando si tratta di far carriera be’, quella è un’altra storia.
È certo che perché le cose cambino, e cambino davvero (non solo da un punto di vista di parità di genere), il giornalismo non dovrebbe essere considerato un hobby, o un secondo lavoro, o un lavoro mal pagato riservato a chi si può permettere di guadagnare un po’ meno. Così come lo è, troppo spesso, il lavoro di una donna. Che le due cose abbiano diversi punti in comune, è un fatto su cui dovremmo interrogarci, per capire se davvero c’è una connessione, ed eventualmente invertire la tendenza.
Altrimenti, possiamo anche diventare tutte Pastry chef, visto che in fondo un ruolo per noi in cucina lo hanno perfino trovato, e per questo dovremmo anche ringraziare. E farci una risata su.
Non siamo le prime a trattare questa tematica. Tra chi lo ha fatto prima di noi Sonia Ricci, ne scrisse su Cibo, e Lavinia Martini, con la sua “Un’altra maledetta newsletter”, due giornaliste gastronomiche di spicco nel panorama italiano, ex autrici di Dissapore e oggi seconde, rispettivamente, di Gambero Rosso e Cibo Today.