Alla fine ce l’hanno fatta. Ci sono riusciti. L’hanno avuta vinta loro. Con quel mix di marketing, sociologia, PNL, MK-ULTRA e Vudù proprio delle multinazionali senza scrupoli: La lista della World’s 50 Best Restaurants 2019 è diventata un evento di cui parlano tutti e dappertutto. Si commenta chi ha vinto sui giornali generalisti (pure se a seguire la diretta da Singapore su Youtube eravamo 3.000) come si parla dei Grammy.
Come gli Oscar, come la finale di Champions, come Sanremo o l’Eurovision, e sicuramente nelle prossime 24 ore (è la massima soglia di attenzione che gli si può concedere, ora che Bottura non è più il numero 1) verrete infastiditi dal tuttologo di turno che sgranerà di fronte a voi il solito rosario di banalità e gombloddi: è tutta una mafia, le guide si comprano, un mio amico cucina meglio di Alain Passard ma dice che le stelle non le ha volute… basta.
Ora anche voi potrete chiamare vostro cuggino ed annientare la discussione con le vostre perle di saggezza. No, non il solito borsino di chi scende e chi sale. Parlo di quel tipo di aneddotica che solo un navigato addetto ai lavori potrebbe sciorinare, con la sfacciata noncuranza che fra poco, sono certo, vi apparterrà. Mi ringrazierete dopo.
Top 120, sul serio?
La lista, per gli amici detta anche la “San Pellegrino TOP 100” quest’anno ha aggiunto venti posizioni. 120, in onore dei 120 anni di vita del main sponsor (sì, davvero). Aggiungeranno una posizione all’anno? Dalla prossima edizione si torna a 100? Ma soprattutto, è obbligatorio comprare bancali di San Pellegrino o Panna per essere presenti? La risposta ufficiale è NO.
E comunque è valso l’ingresso di Norbert Niederkofler e quindi bene così.
La Hall of Fame
Tra lo stupore generale, la Academy che si occupa di stilare la lista ha annunciato che i precedenti vincitori non avrebbero più potuto partecipare. Parliamo dell’Osteria Francescana – defenestrata da numero uno in carica-, ma anche di El Bulli, The French Laudry, The Fat Duck, Noma, El Celler de Can Roca e Eleven Madison Park. Per alcuni, tra cui il sottoscritto, l’effetto è stato quello di togliere autorevolezza alla lista, oltre che alimentare dinamiche di ossessiva ricerca della novità che creano mostri mediatici.
L’elefante danese nella stanza
E anche uno dei più rappresentantivi della categoria in questione, René Redzepi, ha espresso perplessità in merito alla Hall of Fame, il limbo dei big fuori gara, di cui lui non fa parte. Ennò, pur avendo precedentemente trionfato nella 50 Best Restaurants lo chef del Noma era in gara, poiché nel 2018 ha aperto un “nuovo” ristorante, il Noma 2.0, a 500 metri dal vecchio Noma.
Certo, lui è il Dave Grohl della cucina internazionale, è troppo buono per dire qualcosa di negativo e l’ha messa giù in maniera elegante e costruttiva: “La seconda volta (in cui abbiamo vinto) è stata anche meglio della prima”.
Perché quindi negare a qualcun altro questa sensazione? A quanto pare, però, non è lo chef a fare il locale ma la lochescion. Ci auguriamo quindi che il nostro Massimo nazionale opti per un pop-up Francescana a Tokyo, a Sidney, a San Francisco, a Mosca: poi torna, riapre a 500m dal vecchio ristorante e torna papabile. Lo troverà uno stabile in centro a Modena, suvvia.
Il grande assente
E infatti proprio lui non si è fatto manco vedere. Anzi, ha mandato un lavapiatti.
Tutto vero eh, ma lui è il Dave Grohl della cucina e non lo ha fatto con cattiveria. Purtroppo aveva da fare, la premiazione coincideva proprio con il primo giorno del nuovo menù vegetariano del Noma ed era quindi molto occupato. E il lavapiatti è probabilmente il più invidiato del mondo: Ali Sonko, 60 e passa anni portati benissimo nella brigata di Redzepi dal 2003, è assurto agli onori delle cronache nel 2017 quando è stato promosso a comproprietario del Noma.
Come quando Dave Grohl preleva degli sconosciuti dal pubblico per farli suonare, solo che René li fa restare nella banda. E ci spartisce le royalties.
And the winner is: il Mirazur di Mentone
Fatte queste premesse, il Noma 2.0 non poteva certo vincere la 50 Best Restaurant 2019: sarebbe stato un suicidio politico e adesso tutti staremmo scrivendo “grazie a Graziella”.
Devo ammetterlo, il Mirazur di Mauro Colagreco è uno di quei locali per il quale ho sempre percepito opinioni contrastanti. Fortunatamente le recensioni degli ispettori, per essere valide, non devono essere più vecchie di 18 mesi per cui la mia è abbondantemente scaduta. Ah, e non sono manco “ispettore” ora che ci penso. Comunque non guastiamo i festeggiamenti con polemiche tipo “era terzo dopo Bottura e i Roca e ora che non sono votabili ha vinto lui”, abbiamo il ristorante migliore del mondo a dieci kilometri da Ventimiglia, teniamocelo finché Noma non vince un’altra volta, chiude e trasloca.
Comunque ho il netto ricordo di un dolce mangiato al Mirazur di Mentone..”Caco e panna”, che ecco, ehm, come dirlo senza offendere nessuno: niente, la mia recensione è scaduta.
Alajmo in discesa
Non solo lui, ma viene da pensare che qualche giurato abbia fatto un salto, ingolosito dall’orchestrale lavoro di PR, da Amor a Milano. Una fetta di quella “pizza” e saltano subito 8 posizioni.
La cacio e pepe di Riccardo Camanini
È ora di finirla, una volta per tutte. E zittire definitivamente il vostro interlocutore non gastrofregno che si arroga il diritto di esprimere giudizi sulla Cacio e Pepe in vescica di Riccardo Camanini, new entry e vincitore del premio One to Watch 2019 con il suo Lido 84, che recensii per voi appena prima di cotanto chiasso.
Il valore culturale gastronomico di questo piatto è immenso, intoccabile. Critiche come “ma la differenza con una normale non si sentirà” o “una volta l’ho mangiata ed era troppo al dente” sono l’equivalente di un rutto a un TED talk. Studiate da dove arriva, capite il perché, e il sapore del condimento intellettuale della cucina del Lido 84 vi diventerà irresistibile. Oppure non fatelo, ma quando sarete in quel bar questa sera, a fare queste chiacchiere, parlate della cacio e pepe come di un oggetto culturale per zittire gli altri, sperando che non vi chiedano spiegazioni.
TOP 51
Passato dalla posizione 36 alla 51 Niko Romito sui suoi social ha detto la sua, in modo garbato ma deciso: è stato in cucina, ha dedicato poco tempo alle PR e alla sua presenza internazionale, e questo è il risultato.
Una posizione condivisa da molti, anche da un Davide Scabin che si chiedeva come mai entrasse e uscisse dalla classifica ad anni alterni, magari in occasione del Salone del Gusto, che porta visibilità internazionale gastronomica a Torino. C’è da augurarsi che i giudici della World’s Best siano anche sportivi, in quel caso con le Olimpiadi invernali a Cortina qualcuno di loro potrebbe pure accorgersi di Oliver Piras e del suo Aga.