Qualche giorno fa il direttore degli Uffizi Eike Schmidt ha lanciato la proposta della tassa sull’unto: in un’intervista al Quotidiano Nazionale, a metà tra provocazione e grido di dolore, ha dichiarato che si potrebbe introdurre “una tassazione aggiuntiva per i locali di street food, insomma quelli che non offrono ai propri clienti spazio e tavolini ma li costringono a mangiare per strada”, visto che “la gente che mangia per strada causa dei costi alla collettività perché le strade poi vanno pulite dall’olio dei panini”.
Pare che se non togli subito le macchie dai gradini degli Uffizi, il grasso penetra irrimediabilmente nella pietra serena: da qui, la tassa sull’unto. L’idea di Firenze sembra inquadrarsi nel più generale contesto di provvedimenti contro la movida, contro il degrado, contro qualsiasi cosa non sia un mangiare e bere decoroso e danaroso. Ma a ben guardare rappresenterebbe, se accettata, un cambio di passo e di metodo non da poco.
La politica delle ordinanze che vietano questo e quell’altro, infatti, non è un’invenzione recente: ricordiamo il divieto di mangiare street food nei pressi dei monumenti a Verona (2007), il “coprifuoco del gelato” nella Milano di Pisapia (2013), il divieto di bivacco nella Roma di Alemanno (2012). Il punto di queste messe al bando è che sono come le grida manzoniane: non funzionano; come proprio il caso di Verona testimonia. La proposta di Schmidt ribalta i termini della questione: non vietare, ma tassare, colpire cioè nel portafoglio, e preventivamente, non ex post come fa una multa. Soprattutto, colpire non i turisti, ma i ristoratori, una categoria che giustamente dalla pandemia è stata poco segnata.
Noi pensiamo che non solo sia un ottimo metodo, ma che vada esteso e generalizzato. Perché limitarsi all’olio dei panini? Ecco alcune norme che rimpinguerebbero le casse comunali e svolgerebbero una necessaria funzione educativa nei confronti di turisti e ristoratori.
Tassa sulle insegne brutte
Si istituisca una commissione estetica – una commissione paritetica pubblico-privato, con membri nominati sia dalla Sorveglianza beni artistici e culturali sia dalla Camera della Fashion Week – che definisca i criteri formali e decorativi delle insegne: chi non ci rientra, tasse. Naturalmente, per funzionare, i criteri dovranno essere rivisti con periodicità semestrale, magari in corrispondenza della presentazione delle collezioni Autunno/Inverno e Primavera/Estate: se dall’anno prossimo non si porta più il Giallo Illuminating ma il Blu Polvere, che le insegne si adeguino.
Tassa sull’italian sounding
Ma che non ci si limiti alle apparenze: questa tassa dovrebbe colpire soprattutto ristoranti e bar nei pressi delle stazioni e dei luoghi di transito. Se in menu ci sono piatti inesistenti nelle case italiane, ma fatti solo per compiacere il turista boccalone, che il maggior guadagno vada tassato a dovere: spaghetti alla bolognese, fettuccine Alfredo* e castronerie simili, che il ristoratore furbetto paghi. Sovrattassa per chi piega la testa ai russi e accetta di servire Brunello o Barolo ghiacciati.
Tassa sui trend gastronomici
Questa è facile, e di sicuro successo economico: ogni anno si effettui una rilevazione dei trend gastronomici, ovvero della tipologia di locale più aperto negli ultimi dodici mesi, e lo si tassi. Poke? Frutteria? Avanti il prossimo!
Tassa sul coperto scoperto
Un’altra piaga, soprattutto nelle pizzerie e nei bar/tavola calda ma non solo: il coperto. Coperto che prima era giustificato dalla presenza di tovaglie e tovaglioli, che andavano lavati a ogni utilizzo. Poi si è passati alle tovagliette di carta, usa e getta, ma anche quelle hanno un costo, per cui il coperto resta nel conto. Ora i posti più cool e minimal presentano un tavolo, solitamente nero, metallico e di design, e ci appoggiano direttamente il piatto: ma il coperto si continua a pagare. Si attende il momento in cui vi saranno solo le sedie, e i cibi ci verranno posati in grembo. Intanto, una bella tassa sul coperto “scoperto”.
Tassa sul nome “osteria”
Il problema non sono le osterie e le trattorie, e neanche le osterie di ultima generazione e le “new trattoria” (per quanto…) ma quei ristorantoni stellati o comunque di fine dining che si trincerano dietro la falsa modestia di un nome alla buona: mensa, rifugio, dopolavoro e così via. Faremmo una sola eccezione a questa pesante tassa: si salverebbe chi riuscisse a battere in understatement il posto più sfacciato di tutti, che al nome pop del locale aggiunge il richiamo al santo poverello: l’Osteria Francescana**.
*E sì, lo sappiamo che si tratta di finto italian sounding, e che le fettuccine Alfredo sono state davvero inventate a Roma, ma quanti di voi le hanno mai mangiate a casa, fatte da mammà?
**E sì, lo sappiamo che non se l’è inventato Massimo Bottura, che il nome era già quello da prima, ma per caso qualcuno lo ha obbligato a non cambiarlo?