10 trend gastronomici di New York che non importerei

A NYC mangiare fuori non è tutto rose e fiori. Ecco 10 trend gastronomici che non importerei, dal conto a porzioni, mance, prenotazioni.

10 trend gastronomici di New York che non importerei

Avevo già scritto che a New York City non è tutto oro quel che luccica. Sotto allo sfavillante ben di dio che la Grande Mela ha da offrire in ambito gastronomico, c’è del marcio. Non mi riferisco per forza alla dittatura incontrastabile e brulicante di ratti e scarafaggi, capaci di imbucarsi su pavimenti e tavoli anche dei più pettinati fra i ristoranti. Qui bello e brutto, giusto e sbagliato, autentico e fake convivono armoniosamente. E per una sfilza di trend gastronomici che vorrei vedere in Italia, ce ne sono altrettanti che non importerei.

Piccolo inciso: di cose che, ai nostri occhi, paiono assurde e moralmente ripugnanti ce ne sarebbero fin troppe. Disuguaglianza economica e sociale, scarsa food security, assenza di educazione alimentare, regolamentazione traballante su additivi e antibiotici nel cibo. Ma il discorso trascende una mentalità che non è solo newyorkese allargandosi (in peggio) a tutto il resto degli States.

In questa sede mi limito a parlare di tendenze, abitudini, modi di mangiar fuori che, da osservatrice e partecipante attiva, considero fastidiosi ed evitabili, quando non del tutto ridicoli. Da conti stellari a porzioni XXS, tavoli imprenotabili, pasticcerie per cani e ristoranti generalisti, ecco i 10 trend gastronomici di NYC che non importerei.

Conti stellari

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Vivere a New York costa, tanto. Affitti proibitivi per quelli che oggettivamente sono sgabuzzini fatiscenti, frutta e verdura venduti al carato, servizi che aumentano di anno in anno. Certo, a New York puoi fare qualsiasi cosa, basta che paghi. Specialmente mangiare fuori. Cento dollari in due a pranzo è un attimo, che c’è di strano spenderne 250 a cena?

C’è che non parlo di fine dining, almeno non per forza. Quello dei bi-tristellati e omakase a 800-1000$ a testa è un campionato a parte che esiste (e prospera) in parallelo. Il fenomeno dei prezzi fuori di testa è esteso a tutti i locali di fascia media, dove l’entrée o piatto principale raggiunge facilmente i 35-37$. Aggiungeteci antipasto (smilzo), bicchiere di vino, tasse, mancia et voilà, benvenuti nel firmamento dei conti stellari.

Ovviamente parlo da un punto di vista italiano con stipendio, carrello e costo della vita medi italiani. E dunque mi rivolgo a voi, cari visitatori di NYC che dovrete pur mangiare e magari vi aspettate di farlo bene. Aggiustate il budget, e le aspettative. Per spendere meno buttatevi sullo street food etnico, che a NYC è abbondante e spesso di qualità. Altrimenti tocca affidarsi alle leggendarie 99 cents pizza slices: peccato che siano quasi estinte pure quelle.

Porzioni XXS

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Pagare tanto e uscire con la fame si può. In controtendenza all’XXL Made in Usa che tanto scandalizza e affascina noi europei, qui tutto è in taglia ridotta. A partire dagli small plates, i piccoli piatti da condividere ormai a corredo di ogni menu. Quasi sempre però il boccone che arriva non basta a sfamare, ma che dico, a stimolare l’appetito di uno. Figuriamoci di due, o più.

Lo stesso vale, di frequente, per le altre portate. Se la main course vi sembra un contorno tranquilli, non è un disturbo dissociativo della realtà. Quella che appare come cospirazione di un intero settore (“il grande ridimensionamento”) è più banalmente un trend preso in prestito dal fine dining di stampo europeo. Qualità su quantità, attenzione maniacale a stagionalità e disponibilità degli ingredienti, assaporare vs divorare. Tutti bellissimi e virtuosi propositi: quando però al primo sguardo riesci a contare le penne sul piatto, siamo agli eccessi.

Lo stomaco a NYC si restringe per cause di forza maggiore. A meno di non badare a spese, così ordinando tanto di poco si esce sazi e contenti. A mali estremi c’è la doppia cena: usciti dal ristorante si conclude la serata con la fetta di pizza, i falafel, il sushi roll. Un po’ come quando si va per pub, con la differenza che l’obiettivo non è smostrarsi di alcol ma, ci si augura, sfamarsi in proporzioni ragionevoli all’umana sopravvivenza.

Hype gastronomico esagerato

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Neofobia alimentare questa sconosciuta. Parlo ovviamente di New York, che da noi di questi tempi ci manca solo ce la impongano per legge. Tutto il contrario della forma mentis newyorchese che si entusiasma a dismisura per tutto ciò che è nuovo, specialmente quando si tratta di ristoranti. Il buzz che circonda il settore alimentato da critici, blogger, influencer, porta a un hype esagerato, a volte totalmente ingiustificato. E come ogni fuoco di paglia che si rispetti si esaurisce in fretta, nel giro di qualche mese.

Il problema è che nel frattempo si esaurisce anche la pazienza. Il locale di turno, celebrato a dismisura, giustamente se ne approfitta: code interminabili, prenotazioni in crash, menu in sold out. E quelli abbastanza fortunati da accalappiarsi il tanto agognato posto al tavolo devono fare i conti con l’effetto Instagram vs reality.

Non è che da noi non succeda mai. È che a NYC il delirio è la regola. Parliamoci chiaro, è molto meglio l’approccio curioso ed entusiasta al nuovo esercizio di quartiere che la ritrosia alimentare altezzosa e schizzinosa a prescindere. Però quando le aspettative arrivano a livelli estremi, delusione e sfinimento sono dietro l’angolo. Senza escludere qualche mal di pancia, ma di quello non si parla: sarebbe poco instagrammabile.

Prenotazioni selvagge

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Hype esagerato e prenotazioni impossibili vanno a braccetto. Come funzionano le reservations a NYC? Ve lo dico io: come la battaglia all’arma bianca, mani nude, coltello fra i denti e tantissima cattiveria. In teoria esistono tre piattaforme (qualche maligno insinua corrispondano ai diversi livelli di posizionamento dei ristoranti, ma sorvoliamo). Di fatto la più usata in assoluto è Resy che permette, oltre a selezionare data e ora, di cliccare la campanella per mettersi in lista d’attesa.

Il nuovo passatempo dei diners newyorchesi è proprio questo. Attendere, fare refresh della pagina, controllare spasmodicamente. Ci trovi lì a guardarci virtualmente in cagnesco noi che vogliamo “assolutamente provare quel posto nuovo”. Online a mandarci macumbe e farci la guerra per una cena il martedì alle 17.45: quello che si libera si prende, costi quel che costi.

Il problema parte dai ristoranti stessi che, come accade ad esempio con gli stellati, aprono le prenotazioni ogni due-tre settimane fino a esaurimento. E Resy non permette di prenotare oltre, altrimenti scattano calcoli stile matrimonio: “Che dici fra due mesi e quattro giorni ci prendiamo ferie per il brunch?”. E non importa avere cortisolo a mille e tunnel carpale al polso, l’importante è assicurarsi il dannato tavolo. Poi magari è al bar, ma va bene perché (almeno stavolta) la FOMO è sconfitta.

Mangiare in discoteca

mangiare in discoteca

Il nuovo trend di NYC è la cena sensoriale: tolti vista e udito ci si può finalmente concentrare sul cibo in modalità degustazione. Nah, sarebbe bello ma non è così. Mangiare in discoteca è una metafora per evidenziare cosa succede in (tanti) ristoranti della città. Luci abbassate e musica a palla, ovvero vederci poco e conversare urlando. Il tipo di atmosfera che non farebbe una piega al bar, ma al ristorante anche meno essù.

Che poi se è vero che mangiare fuori a NYC significa socialità, allora vorrei anche crearli questi legami intorno al tavolo. Se non ci vedo devo prestare più attenzione del dovuto a cosa c’è nel piatto, se non ci sento dopo un po’ mi stufo di dirti eh? ogni piè sospinto. Non sono bacchettona, in altre circostanze (club, pub, discoteca) ci sta benissimo. Al ristorante invece ci sta abbassare un po’ il volume e fornire la luce necessaria per leggere menu e conto, magari apprezzare con la vista quello che stiamo per addentare.

Lampada da tavolo sì, lume di candela ancora ancora, luci strobo no. Musica di accompagnamento sì, bassi che spezzano le gambe a suon di trap aggressiva la mattina alle 11 no. Una cena dei sensi che dir si voglia passa anche dal settimo: il buon senso.

Mancia per tutto, anche il caffè

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Sulla cultura della mancia negli States ce ne sarebbe da dire. Che piuttosto si dovrebbero alzare le paghe minime da fame, che va a penalizzare le fasce più povere della popolazione, che è un retaggio razzista e schiavista. Però è una questione di mentalità, un automatismo del settore servizi che porta anche i suoi vantaggi. Se sei bravo (e nel posto giusto) in un giorno fai centinaia di dollari, arrivando a stipendi mensili che in Italia corrispondono a quelli da manager.

Ricompensare un servizio, e ancor di più un servizio fatto bene, è sacrosanto. Detto questo, a NYC sta diventando sempre più difficile sfuggire alle mance, anche nel caso di un caffè a portar via. Non solo quello a grammature e salamelecchi come La Cabra, fino lì ancora ancora. Succede anche per il cold brew già pronto da versare, un do ut des fra cliente e barista che prende 10 secondi netti ad esaurirsi.

Ecco anche in quel caso il POS chiede, previo pagamento, quanta percentuale di mancia vuoi lasciare. I sistemi automatici (mica scemi) propongono in grande e al centro quella più alta, e occorre soffermare lo sguardo per selezionare una cifra adeguata. Che però no, la mancia in casi come questi è superflua. Se si inizia a lasciare 1-2 dollari per ogni 5 di caffè, a breve saranno i clienti ad aver bisogno di aiuto economico.

La componente più problematica di queste transazioni è quella psicologica. Lo schermo del POS è posizionato esattamente davanti al barista che vede benissimo cosa scegli di fare. Selezionare no tip negli States è sempre un compromesso con la propria coscienza. In questo caso è anche un mini-tribunale al cospetto dell’imputato che, anche se comprende la decisione, comunque ti giudica. E allora si clicca qualcos’altro, magari una custom tip dove sei tu a decidere la cifra. Avanti così in pace col cervello – fino al prossimo caffè.

Pasticcerie per cani

piatto per cani

 

Non me ne voglia la collega Chiara Cajelli, che fa benissimo a promuovere le sue attività culinarie (anche) per cani. Qui parlo di un fenomeno sempre più in espansione a NYC che ultimamente sta raggiungendo vette di speculazione e ostentazione fuori luogo. Già da tempo esistono decine di pet bakeries, pasticcerie per cani che punteggiano la città soprattutto nei quartieri residenziali. Bene, se esiste una domanda (tutti qui girano con Fido) perché non soddisfarla?

La tragedia vera è che NYC non è una città come le altre. Qui la forbice sociale è larghissima, tanto che sullo stesso marciapiede convivono gli schifosamente ricchi con i disperatamente poveri. Di fronte a una varia umanità che vive alla giornata senza avere accesso ai servizi (e alla dignità) più basilari, come si fa a promuovere ed espandere il gourmet per cani?

Verdure fresche, carne di prima qualità, menu sani e bilanciati sono veri e propri miraggi per migliaia di persone in città. Eppure è proprio questo che sempre più esercizi propongono per gli amici a quattro zampe e i loro facoltosi padroni. Uno schiaffo a chi non ce la fa, non tanto per scelte sbagliate, quanto per un sistema profondamente disuguale e disfunzionale come quello americano. Dove tanti, troppi, sono trattati peggio degli animali.

Stellati poco entusiasmanti

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Andare a cena in un ristorante con stella Michelin è prima di tutto un’esperienza. Non bastano piatti ricercati, tecniche avanzate, camerieri impeccabili, tavoli eleganti. La somma dev’essere più dei singoli elementi: ci vogliono armonia, coerenza, storytelling. Ci vuole, in una parola troppo inflazionata, passione. Mettetevi il cuore in pace perché a NYC difficilmente la troverete.

La premessa è che la guida Michelin negli Stati Uniti ci è arrivata l’altro ieri, con metri di giudizio assai più indulgenti dei corrispettivi europei. La stella esposta da tanti ristoranti di New York a volte è un mistero, soprattutto considerando altre realtà al pari di ricercatezza e guizzo creativo. Ambiente casual, per non dire anonimo; assenza quasi totale di sorprese (amuse bouche, pre dessert) nel menu; tempi di permanenza cronometrati che raramente superano l’ora e mezza.

Il risultato è poco entusiasmante, se non deludente. Anche perché più che l’esperienza si percepisce il bisogno di fare business, con la stella a fare da specchietto per le allodole aka critici e clienti. Una cena ok ma non wow val bene una recensione o una photo-op per poter dire Ci sono stato, e passare al prossimo. Unico vantaggio è il prezzo: visti i conti in media salatissimi di cui sopra, mangiare in uno stellato diventa (un po’) più accessibile.

Ristoranti generalisti

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Quel pan-seared salmon io non lo posso vedere. Così come la burrata, di questo passo più newyorkese che italiana. O la caesar salad, leggendaria nell’origine e nella fama. Sono solo alcune delle voci che si trovano a ripetizione nei menu dei “ristoranti generalisti”, i senz’anima sempre uguali che sembrano rimasti a un modo di fare cucina del primo Sex&TheCity. Cioè vent’anni fa.

Ne sono pieni zeppi quartieri agiati come Upper West/East Side, Tribeca, West Village. Il generalista è ambiguo, camaleontico, miscellaneo. In esso convivono classici riesumati (cocktail di gamberi), vecchie “nuove” fads alimentari (quinoa bowl, cauliflower steak), piatti around the clock come omelette e avocado toast (e infatti i generalisti spesso restano aperti tutto il giorno).

Cavalli di battaglia come branzino, hamachi crudo, NY strip steak non conoscono stagione, provenienza, sostenibilità. Ma tutti questi wild caught salmon esattamente dove li pescano? Non mi sembra che le coste di Scozia e Alaska siano abbastanza prolifiche da soddisfare l’esercito di sciure di quartiere che, come brave housewives alla Gwyneth Paltrow, vanno avanti a pesce e prosecco.

Che poi non è che al generalista si mangi male di per sé. E nemmeno è assimilabile alla trappola turistica. Piuttosto è una comfort zone noiosa senza novità e senza rischi: in una città dove convivono innovazione pura e cucine tradizionali autentiche, uno spreco di tempo, denaro e calorie.

Il brunch che è un dinner con le uova

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Si dice che il brunch a NYC abbia trovato il suo apice, diventando marchio di esportazione e occasione consolidata di una certa socialità. Dobbiamo ringraziare (o maledire) la Grande Mela se il trend è arrivato fino a noi con l’impatto economico e gastronomico che ne consegue. La differenza rimane sul piano culturale: se da noi il brunch è fondamentalmente una colazione con elementi salati, a NYC si sono fatti furbi.

I ristoranti con menu appositi, adeguati e pensati sono sempre più un’eccezione. Il brunch newyorkese si è ufficialmente trasformato in un dinner con le uova, ovvero piatti identici a quelli serali con in più una sezione dedicata a omelette e pancakes. Primo problema: prezzi alti (ma non mi dire), altro che colazione. Secondo problema: offerta appiattita e striminzita laddove le uova prendono il sopravvento. Terzo problema: dovunque vai ti rifilano sempre la stessa cosa.

Insomma, per trovare un brunch diverso dal solito serve il lanternino. Una dritta è approfittare dell’ambiente multietnico per esplorare altre cucine che la sanno ben più lunga sulla tarda colazione del weekend: bento e cold soba giapponese, dim sum cinese, Jewish brunch. Immergetevi nell’Empire State of Mind, del resto a New York there’s nothing you can’t do.