Chi volete essere da “grandi”? Se dite un astronauta siete banali, e tenete presente che “me stesso” non vale.
Una risposta originale potrebbe essere “Stefano Callegari“. Arrivare a 48 anni con tre ristoranti a Roma (Sforno, Tonda e Sbanco) e una catena di street food gourmet non sarà il sogno di tutti i bambini, ma molti ci metterebbero la firma, come si dice.
Soprattutto per le prospettive di guadagno, okay, anche per l’orgoglio di aver dato alla pizza romana un volto nuovo e di aver trasformato un triangolo di pasta in uno spettacolo di cucina tradizionale da asporto. E da esportazione.
In caso non si fosse capito, stiamo parlando del trapizzino, la non-pizza ripiena di specialità tendenzialmente romane, con quattro sedi nella capitale (Testaccio, Ponte Milvio, Cinema Adriano di Piazza Cavour e Stazione Termini, nel nuovo Mercato Centrale).
Poi due in franchising a Ladispoli e Trevignano e altri due in Giappone, a Kanazawa e Tokyo. Ebbene sì, Callegari e i suoi sono stati là per insegnare ai giapponesi come si fanno coda alla vaccinara & Co.
E in arrivo ci sono quattro nuove aperture, altre due a Roma, poi Firenze e New York.
Per tutto questo e altro ancora abbiamo deciso di conoscere meglio mr.Trapizzino, per capire cosa c’è dietro le sue idee più brillanti.
Siamo andati a trovarlo da Sbanco, pizzeria con cucina di via Siria 1 aperta a Roma con Marco Pucciotti (socio di altri locali come Epiro, BarleyWine, Hop&Pork) e Giovanni Campari del Birrificio del Ducato.
Callegari ha un fare così calmo e pacioso che viene da chiedersi se sia stato proprio lui ad aprire tutti questi locali, ma al contrario un entusiasmo vivo e contagioso ogni volta che si parla di ricette.
O di quella volta quando, nel 2008, in una pizzeria al taglio appena aperta a Testaccio si è inventato il trapizzino.
“Volevo fare la pizza ripiena a modo mio e dopo tanti tentativi ho deciso di usare l’angolo del disco di pasta per farlo diventare una tasca“, ci spiega.
In principio fu pollo alla cacciatora, poi tutti gli altri gusti. Parliamo di ripieni del trapizzino ovviamente: seppie e piselli al pomodoro, lingua in salsa verde, padellaccia di maiale (collo del maiale con gli aromi della porchetta), doppia panna (burrata con alici), misticanza alla romana (ovvero, aglio, olio e peperoncino), solo per citarne alcuni.
Un altro classico, il ripieno di polpette al sugo, potrebbe suggerirvi il pasto dell’operaio portato da casa, in effetti il cartoccio triangolare diventato simbolo del trapizzino ricorda il cappello del muratore, ma questo lo diciamo noi.
I prezzi, intanto, lievitano. A Termini il “cono sbrodolante” costa 4 euro (contro i 3.50 soliti) come succederà presto negli altri locali. Magra consolazione: un trapizzino in Giappone costa il doppio.
Ma il trapizzino, per quanto gallina dalle uova d’oro, è solo una parentesi felice nella carriera di Callegari.
E’ stato lui a portare nuova linfa alla classica pizza romana, la famosa scrocchiarella, in sofferenza rispetto allo strapotere della pizza napoletana e di quella gourmet, la novità di cui il Nord si è fatto portavoce negli ultimi anni: lievitata naturalmente, con farine macinate a pietra, con uno spessore più alto e una diversa consistenza.
La strada intrapresa dal pizzaiolo romano ha a che vedere con una cura ossessiva degli impasti e con farciture che vincono tutte le resistenze, soprattutto quelle dei suoi concittadini. Pensate per esempio alla pizza Rosettone: una pizza che replica nella forma la rosetta, il pane tipico romano, con tanto di cinque bozzi al centro.
O per uscire una volta tanto da Roma pensate alla pizza Greenwich, la cui farcitura deriva dall’usanza dei marinai inglesi di conservare il formaggio nel vino per difenderlo dai topi.
Mozzarella, Stilton (un formaggio erborinato inglese inserito sia in cottura che a crudo) e riduzione di porto Ruby, quello più fruttato e meno legnoso.
Ma il meglio del Callegari pizzaiolo sono i remake dell’aristocrazia del guanciale, della nobiltà del pepe nero, del patriziato del pecorino, cioè Carbonara e Cacio e Pepe.
La pizza Carbonara, per esempio, è sorprendentemente simile nei profumi al piatto di pasta.
Viene cotta insieme al guanciale, che rilasciato il grasso sulla pasta diventa croccante.
A crudo invece, la pizza viene condita con una crema composta da due tuorli e un uovo intero, quindi pecorino sbattuto (“con la forchetta eh, che deve rimanere grossolano, niente sbattitore, tutta quell’aria non serve“, precisa Callegari) e pepe nero.
Ma per raccontarvi come si fa la pizza da Sbanco, dalla A alla Z, abbiamo optato per il non plus ultra della rivisitazione.
Altra pasta “romana” ma questa volta più difficile da replicare in versione pizza. Perché la cacio e pepe deve “rimanere umida e “ingrippare la gola“, pur mantenendo asciutto il pecorino.
Prima di scoprire cosa si è studiato Callegari per risolvere il problema, partiamo dall’impasto.
Come fare a casa la pizza cacio e pepe di Sforno
Un litro e mezzo d’acqua per un chilo e mezzo di farina (00, con un 20% di semi-integrale), il 3% di sale, un 2% di olio e poi due lieviti.
Lievito madre che assicura i profumi e una parte acidula quasi “limonosa“, oltre a rendere la pasta più lieve e croccante; lievito di birra che fa la sua parte per la crescita dell’impasto.
L’ordine degli ingredienti, la forza della farina e la pazienza di aggiungerla poco alla volta sono fondamentali.
L’impasto viene preparato il pomeriggio per essere pronto la sera successiva dopo un riposo di 30 ore a 12 gradi.
Il risultato è una crema, nel vero senso della parola: Callegari ci parla di “un’idratazione al 70%” col sopracciglio arcuato di chi sottintende percentuali notevoli.
Poi si fanno i panetti, quelli già dosati per diventare pizze: peso 120/150 grammi l’uno.
Quindi un trucco interessante: lasciarle davanti al forno a legna per 2-3 ore per farli crescere il più possibile.
E fin qui la pizza è uguale alle altre di Sbanco. Per la cacio e pepe, però, bisogna alzare un po’ di cornice intorno alla pizza.
Il motivo è strambo quanto ingegnoso: perché durante la cottura l’unico ingrediente è il ghiaccio.
E come potete immaginare senza il cornicione ad arginare l’acqua uscirebbe fuori, non appena sciolto.
Ma non vi abbiamo detto il perché del ghiaccio. Serve per rendere la superficie umida.
Mentre la pizza cuoce l’acqua mantiene la pasta lievemente bagnata e il cornicione si alza, pronto a ospitare il pecorino a crudo, in dosi molto generose.
Il risultato è uno strato umido, che fa da cuscinetto tra l’impasto e il formaggio asciutto sparso in superficie.
Esattamente come negli spaghetti cacio e pepe, con la loro spolverata finale.
Il risultato è questo: vi piace?