Quando sento che un altro cuoco vieta le fotografie ai suoi piatti sento irrefrenabile salire il vortice delle animelle. Senso di smarrimento, cefalea e secchezza delle fauci, e mi viene tanta voglia di prestidigitare sul navigatore un altro indirizzo, tanto per dire. Che sia con la sicumera sbrindellata di Rocco Iannone – che pur nel cuor mi sta con la sua cucina cinematica – sia che sia con la classe ritirata di Niko Romito. Sia che sia con lo studiato distacco di Davide Oldani, che con la sicurezza aritmentica di Massimiliano Alajmo.
Dunque quando ho concretizzato l’idea di visitare Ilario Vinciguerra gli ho scritto prima, conoscendo la sua avversione per gli avventori smacchinanti. Con gentilezza, ma con altrettanta fermezza mi ha risposto picche. O meglio, ha giustificato il suo rifiuto con la sua visione di cucina: l’immagine è uno solo degli aspetti del piatto, e nemmeno il più importante. D’istinto avrei intonato il freguntubo, visto che sono piuttosto allergico alle norme cogenti: però poi la curiosità ha preso il sopravvento, e sopra tutto la Regola delle Regole: prima provare, poi…
Così sono andato, con la Lumix in tasca non si sa mai, con le mie due piccole cartucce da sparare domandandomi su quale preparazione giuocarmi il futuro.
Poi al termine di una cena di cui dirò tra poco, ho avuto la possibilità di dilungarmi con Ilario: su questo e su altri argomenti. Ritornando all’albergo, i primi cristalli di neve a scendere dal cielo color malva, ci ho ripensato, ha ragione lui.
Più di uno dei piatti sono all’apparenza semplici: anzi minimi. Curatissimi, ma per esprimere la carica comunicativa di cui sono impregnati non c’è verso, vanno vissuti dal vivo. Un’immagine, anche molto migliore di quella che potrebbe scattare l’indegno fotografo qui presente, ne riporterebbe una visione castrata, parziale, insufficiente.
E se lo ascolti comprendi quanto Ilario Vinciguerra e la sua cucina sono identici, sovrapponibili anche nei dettagli: perciò per stavolta, cambio idea.
Va bene così.