Oggi, per il New York Times, Felice a Testaccio è la migliore trattoria di Roma. Ma nel 1936, appena aperta, era un’osteria dove i clienti portavano la cena da casa e l’oste serviva da bere. Le cose sono cambiate quando il figlio del proprietario, Felice Crivelloni Trivelloni, ha preso in mano l’attività, trasformandola in un simbolo della romanità. Per la buona cucina: tonnarelli cacio e pepe, carciofi al tegame, abbacchio, minestra al brodo di arzilla. Per l’onestà dei prezzi. Per l’impronta essenziale (ruvida, dicono in molti) data al locale. Lui faceva tutto, era il proprietario, l’amministratore, il cuoco, il cameriere e il lavapiatti. Non c’era insegna all’esterno, i tavoli erano in formica, le luci al neon. Famoso il vezzo di allontanare i clienti anche se il locale sembrava vuoto. In realtà erano tavoli prenotati dagli abitanti del quartiere. Ma il posto per operai o muratori lo trovava sempre, il comunista Felice.
Adesso Felice Trivelloni è morto. Per lui Roberto Benigni, cliente del locale da quando era ancora in cerca di fortuna, ha scritto: «Felice è un uomo onesto, bravo e giusto/ e quando morirà (a tutti tocca)/ ci sarà in Paradiso un gran trambusto/ Pure gli angeli perderan la brocca/ Cristo lo accoglierà con grande gusto/ Lo abbraccerà con l’acquolina in bocca/ e gli dirà, in mezzo a quel presepe/ “E vai Felì, facce ‘na cacio e pepe!».