A proposito di politica, ci sarebbe qualcosa da mangiare? La leggendaria battuta di Totò – che lungi dall’essere una frase qualunquista ha un significato profondo, e ben connotato – cade a fagiuolo sulla notizia del momento. Che è questa: il nome di Totò diventa un marchio, e le pizzerie che lo usano indebitamente dovranno cambiare nome. Cade a fagiuolo perché ci vorrebbe proprio un intervento della politica, una bella legge (hanno fatto la legge Massari, non possiamo proporre la legge Totò?) che protegga i miti, ma li protegga non dall’appropriazione da parte di qualsiasi cittadino, bensì dai loro stessi eredi. I quali oggi possono non solo muoversi a difesa dei propri legittimi diritti successorii, patrimoniali, ma anche ergersi a baluardo del retaggio spirituale. Una norma che tuteli i monumenti nazionali dai loro stessi tutori, insomma.
Dunque, abbiamo detto marchio ma in realtà non è proprio così: in questo caso ciò che pare rilevare non è la protezione di un brand Totò, che non esiste (ancora?), e neanche il diritto d’autore, ma la protezione dell’immagine e del nome, e i limiti al loro sfruttamento per fini commerciali. Da un certo punto di vista la normativa ha una sua logica: io non posso chiamare il mio negozio di orologi Gianni Agnelli, o il mio shop online di vino Gianni Brera, facendomi bello della notorietà altrui, conquistata con dura fatica in vari campi – artistico, culturale, imprenditoriale.
Ma, e qui sta il punto: può Totò definirsi un artista? Semplicemente un artista, intendo. Credo che chiunque sarà d’accordo: uno come Totò è molto di più, ha fatto il salto di categoria, come pochi. È una maschera, è un simbolo, è un monumento, è un mito. Dire Totò è dire Pulcinella, Vesuvio, mandolino (sì certo sono tutti cliché, ma ci arriviamo tra un attimo). Dire Totò è dire Napoli.
Vogliamo tutelare un monumento nazionale, e per tutelarlo lo facciamo sparire? Cancelliamo la sua immagine da tutti i posti che la usano senza chiedere permesso, cioè quasi tutti?
Io capisco il risvolto psicologico; capisco che se tuo nonno diventa un simbolo, un monumento nazionale, in un certo senso è come se smettesse di essere tuo nonno, o lo fosse un po’ di meno. Come se fosse un po’ più di tutti è un po’ meno tuo: la difficoltà di conciliare figura pubblica e figura privata è impresa ardua per se stessi, figuriamoci per altri, ma si dovrebbe almeno provare a fare uno sforzo.
Alle perplessità teoriche, si sommano quelle pratiche. Su tutte, l’infattibilità della tutela: cosa fanno gli eredi, diffidano centinaia o migliaia di pizzerie in tutta Italia? Si metteranno a sucutare, come si dice a Napoli, tutti i locali uno per uno? Beh stando alle cronache di questi giorni, parrebbe proprio di si: parrebbe che stiano arrivando lettere su lettere deglii avvocati alle pizzerie che usano nell’insegna il nome di Totò, o quello della sua nota poesia ’A livella, da Torino a Latina passando per San Benedetto del Tronto.
Oppure gli eredi valutano caso per caso, facendo un controllo qualità? Se la margherita è fatta a regola d’arte, via libera, se invece il cornicione inchiomma, arrivano i legali? La nipote del principe della risata, Elena De Curtis: “Noi chiediamo solo una regolamentazione. Siamo disposti ad avviare, come abbiamo sempre fatto del resto, un’interlocuzione, in alcuni casi stiamo dando anche l’autorizzazione all’utilizzo. Quando non c’è malafede si trova un punto di incontro, un accordo”.
Ma io poi mi chiedo: veramente il nome o la faccia di Totò sono un valore aggiunto, esche che possono ingannare il cliente, o non sono piuttosto semplici segnali? Ma veramente qualcuno si lascia attirare o adescare dal nome di Totò? Cioè veramente uno pensa che la pizza è più buona perché il locale si chiama ’A livella piuttosto che ’A chianella?
La famosa foto di Totò che mangia gli spaghetti con le mani campeggia in una infinità di pizzerie, per la maggior parte di livello basico, che ricorrono a tutti i cliché e gli ammennicoli della napoletanità più da cartolina: appunto le maschere di pulcinella, il Vesuvio col pennacchio di fumo, chitarre, panni stesi, ‘nzerte di aglio… Non stiamo poi parlando di un nome legato a doppio filo al settore gastronomico, non è come vendere abbigliamento sportivo sotto l’insegna Diego Maradona, o aprire un cinema con il nome di Totò.
E lo sappiamo, la legge (o meglio una pronuncia del tribunale di Torino) è dalla loro parte. D’altro canto, la storia giudiziaria della ristorazione è costellata di decisioni clamorose, come quella del M**Bun, in difesa dei più forti. Non ci meraviglieremmo se questa operazione di pulizia venisse portata avanti con acribia, per mesi o anni, su e giù per la penisola. E a proposito di fagiuolo, dio non voglia che arrivino al locale sotto casa di un mio amico a Napoli, che si chiama Totò, Eduardo e… pasta e fagioli! Qui la sanzione potrebbe essere duplice se non triplice: potrebbero farsi avanti gli eredi di quell’altro monumento di De Filippo, ma pure i legittimi successori della pasta e fasule?
Ma ecco, si legge sul Fatto Quotidiano: “Gli eredi stanno anche pensando di creare un brand e un format di pizzerie e ristoranti, per poter proteggere al meglio l’immagine di Totò”. Ah. Quindi alla fine l’errore iniziale era invece giusto: pizzeria Totò potrebbe diventare un marchio. Evidentemente, per quante volte l’abbiamo letta quella poesia, nelle pizzerie o meno, il vero significato della Livella ci sfuggiva: sì ok, i morti sono tutti uguali. Ma gli eredi no. A proposito di tutela dell’immagine, ci sarebbe qualcosa da mangiare?