Tra le pizzerie romane sulla bocca di tutti a cui non potevamo che dedicare una recensione, Qvinto. Lounge bar/pizzeria/ristorante/discoteca/braceria/tea room etc. di proporzioni colossali, immerso nel Parco di Tor di Quinto, nell’esotica Roma Nord.
La sua proprietaria, l’intraprendente imprenditrice Sabrina Corbo (così si legge sul sito ufficiale del locale), qualche tempo fa è comparsa a “I soliti ignoti”, descritta come colei che “fa mangiare gli ospiti in un igloo”.
Sì perché Qvinto, oltre che per la perizia gastronomica di Ivano Veccia e Daniele Creti (rispettivamente pizzaiolo e chef), è divenuto celebre per alcune trovate scenografiche che hanno colpito l’immaginazione dei romani: tra tutte, appunto, gli “igloo”; sorta di cupole in PVC sistemate in giardino a copertura dei tavoli, che durante l’Inverno hanno permesso agli ospiti del locale di desinare sotto le stelle.
La stagione estiva ha visto le tende plastiche sostituite da “jungle cubes” di ispirazione tiki, cubicoli privati ornati di felci, ibischi, plumerie, palmizi e pappagalli (…).
Nonostante mentre scorra il sito e i social la paura del trash estremo si insinui strisciante nel retro dei miei pensieri, data la curiosità di scoprire pizzaioli fantastici, riesco a cogliere il lato ludico della cosa (dopotutto, amo i parchi a tema) e prenoto.
Scelgo allora per l’occasione un bel camicione hawaiiano oversized, giusto per essere a tema, e mi metto in macchina, pronto alla traversata.
Il locale
Il ristorante si trova letteralmente all’interno del parco, ed accoglie i clienti con uno sterminato parcheggio che, tanto per rincarare la dose, consacra l’impressione di trovarsi a Gardaland – se non fosse che a scendere dalle auto non ci sono bambini felici e genitori distrutti dalla vita, ma per lo più giovani donne in tiro e Briatori di vario genere.
Alla fine dell’oceano di prato e tettucci, strizzo gli occhi affannati dalla bruma del viandante, compare come in una visione il ristorante: è un monolite bianco a due piani d’ispirazione vagamente nautica, un po’ fienile, un po’ loft, un po’ traghetto della Caronte, che si erge sul piattume dell’area verde con maschia potenza di tronista.
Si accede al banco reception guidati da due cordoni di passamano in velluto rosso, ed è subito red carpet. Sulla destra, la scala esterna in legno che porta al “The Roof”, l’area lounge bar interna foderata di vetrate con vista, porta incisi sugli scalini i segni della guerra della resilienza – le parole “laugh, love, live, imagine, believe, dream”.
Le addette all’accoglienza, sorridenti, vestono dei tubini a sfondo verde decorati con fantasie tropicali e colibrì: lì per lì non ci faccio caso, ma scoprirò più avanti che l’intero staff è inguainato in divise intonate al tema della stagione.
Appena prima che m’imbarcassi, il cielo di Roma ha deciso di fare uno scroscione: per via della pioggia, per quanto sia stata fugace e già passata, il Jungle Garden non è disponibile; il tavolo prenotato è stato allestito all’interno. Peccato.
Butto comunque un occhio al bel giardino, poi accedo alla sala, che nel suo essere pur colma di gingilli (fiori finti ne costellano il soffitto, in cascate a cespi abbondanti di rosa; statuette e oggetti e parole d’ispirazione in varia forma si palesano dappertutto) si rivela più sobria ed elegante del previsto.
Belli i tavoli rotondi in legno o marmo, sobria e lussuosa l’apparecchiatura, la sala percorsa sul lato lungo da un bancone della carne imponente dietro il quale fa mostra di sé una grande brace a fuoco vivo. Faccio un rapido conto dei coperti, che a occhio e croce devono essere, solo dentro, più di cento.
Le sedute sono spaziose, i tavoli forse un po’ troppo ravvicinati tra loro in alcuni punti: in compenso ogni commensale viene servito di un monodose di igienizzante per le mani customizzato dal piacevole profumo di eucalipto (lol).
Il servizio, delegato a una brigata di giovani uomini e donne, si rivelerà sufficientemente fluido, per quanto non preparato su alcune richieste specifiche ed a tratti ingenuo nella gestione delle tempistiche: cionondimeno la gentilezza e l’educazione del ragazzo assegnato al nostro tavolo sopperiranno alle mancanze, rendendo l’esperienza, nel complesso, piacevole.
Il menu e i prezzi
Dicevamo che da Qvinto convivono due anime culinarie: quella dello chef è romana, quella del pizzaiolo, Ivano Veccia, è invece napoletana – anzi, per la precisione, ischitana.
Dal canto nostro, scavalchiamo a pie’ pari la sezione dedicata al ristorante: siamo qui per i dischi d’impasto fumanti.
Pur trascurando gli antipasti, come facente parte dell’offerta pizzària considereremo invece, per evidenti attinenze tematiche, la sezione “friggitoria”: gli sfizi proposti spaziano dai 2,5 euro del crocché di patate classico ai 3,5 euro della frittatina di pasta; passando per i 3 del supplì, proposto in una interessante versione a base di ragù napoletano.
Vale venti euro, invece, il fritto misto per due persone.
I prezzi delle pizze, tantissime e alcune anche molto stuzzicanti, suddivise in “Classiche”, “Speciali” e “Stagionali”, oscillano tra i dieci euro della “povera“ Marinara e i 28 (sì, ventotto) della Mazara, con gambero rosso. Arricchiscono la selezione già opulenta due calzoni fritti (14 euro) e due varianti di montanara (14 e 15 euro).
Colto dall’imbarazzo della scelta (classica o speciale?), trovo istantaneo sollievo: la carta riporta l’opzione “Percorso degustazione”. Riporto testualmente dal menu: “Il maestro pizzaiolo ha il piacere di proporvi un percorso degustazione che vi porterà a scoprire tutto il gusto delle pizze di QVINTO. Il nostro personale di sala sarà lieto di assistervi durante la degustazione”.
Già mi vedo, passare come una scimmietta tra le liane del tropicalismo qvintiano, da uno spicchio di Margherita a uno di lasagna povera, le altre due mani che afferrano saldamente assaggi di “Anna Savio” e focaccia con la bottarga.
Peccato che non sia vero nulla. Il percorso degustazione non esiste.
O meglio, esiste non nella forma che ci si aspetterebbe, in cui lo chef seleziona in maniera ragionata le tipologie che preferisce per fornire al cliente una panoramica della sua idea di pizza, servita in porzione ridotta o allo spicchio: no, il “percorso degustazione”, mi dicono come si direbbe a un alieno, è quando venite in tanti, scegliete una pizza ciascuno, e noi le serviamo già tagliate su un’alzatina. “Eccerto”, dico io, “…percorsodegustazione”, borbotto, mentre non riesco a nascondere del tutto il mio sgomento; e la scimmietta interiore piange urlando disumanamente “MA QUESTO È UN GIROPIZZAA-A-A”.
Sul fronte del bere, la carta dei vini è ampiamente trascurabile e piena di “quello che chiede la gente” a ricarichi abbastanza elevati, le quattro birre alla spina sono tutte fortissimamente industriali, contrappuntate dalla disponibilità in bottiglia dell’intera gamma Baladin (7 euro per 33cl). Scegliamo Nora e Wayan, trovandole peraltro entrambe in uno stato di forma invidiabile: ho pensato solo alla fine del pasto che non mi sarebbe dispiaciuto affatto pasteggiare coi cocktail della casa, che però in fase di scelta non ci sono stati proposti.
I fritti
Si comincia con un omaggio della casa, una zeppolina/montanarina in versione classica, con pomodoro, basilico e parmigiano. Buona, nonostante non leggerissima e decisamente chewy.
Il fritto misto si presenta invece decisamente imponente e dall’ottimo rapporto qualità/prezzo: a livello sensoriale presenterà alti e bassi, nonostante i primi siano senza dubbio molti più dei secondi.
Ottimo è infatti il supplì al ragù napoletano, ricco e intenso, in cui il condimento e la cottura del riso sostengono perfettamente la doppia panatura al panko croccante e spessa: un po’ meno piacevole invece la mozzarella in carrozza, che nonostante l’equilibrio tra panatura, pane e ripieno manca completamente di un elemento sapido di rottura (dov’è l’alicetta?).
Eccezionale il crocché di patate, dolce, cremoso, ricco; a mani basse il migliore mai mangiato in qualsiasi ristorante: non altrettanto eccezionale la frittatina di pasta, perfetta per pastella e frittura, saporita, ma completamente scotta all’interno.
Infine grande “Nì” per i fiori di zucca, prodotti con materia prima eloquente, pastellati e fritti anche loro in modo eccellente, ma farciti con un ripieno a base di stracciatella che fa storcere la bocca per via di una certa acidità fuori posto.
Le pizze
Capitolo pizze: a colpo d’occhio, non ci siamo. Le due scelte arrivano con evidenti differenze di stesura e cottura, una con cornicione quasi a canotto ed evidenti bruciature su un lato, la seconda spianata in modo più omogeneo, ma sgradevolmente pallida.
Procediamo comunque all’assaggio che svela un impasto di base abbastanza buono, napoletano senza divagazioni, filante e soffice per quanto, a lungo andare, non leggero e tendente al gommoso.
Abbiamo scelto una Partenope (16 euro), infallibile nell’abbinamento classico di pomodori del Piennolo, bufala campana, alici di Cetara, olive caiazzane, capperi di Salina – ingredienti tutti di grande qualità – e una stagionale Sole Mio (14 euro), ispirata agli spaghetti alla Nerano, con crema di zucchine, crema di provolone del Monaco, mozzarella, zucchine fritte, fiori di zucca, menta e provolone del Monaco a scaglie.
Complessivamente molto piacevole, grazie soprattutto alla freschezza della menta e dei fiori di zucca a crudo, la base di crema di zucchine ben realizzata che contrappunta con la grassezza del cacio, risulta purtroppo penalizzata dalle rondelle di zucchina fritta cotte male, secche e asciutte, che non aggiungono nulla al complesso e semmai sottraggono.
Nonostante la pizza fosse, al netto dei difetti, più che sufficiente mi aspettavo decisamente di più: un certo disappunto deve essermi fiorito sul viso, perché quando ci viene portata la carta dei dessert il cameriere che ci sta servendo non riesce a trattenere un “Sono spettacolari, spero che questi vi conquisteranno”.
Lo deluderò, mio malgrado, perché la Dragon Pie (torta di mousse al cioccolato con salsa al litchi e dragon fruit, 9 euro), oltre a presentarsi decisamente volgare, con il suo tocco di pitaya sbattuto in cima senza alcuna ragione nell’economia gustativa generale del dessert, e la salsa rosa e semitrasparente al litchi che mi porta istantaneamente alla mente, non senza sorpresa, le deiezioni organiche di un unicorno in calore (COSA-DIAVOLO-STO-PENSANDO); abbrutiscono una base altrimenti molto gradevole.
L’opinione
In generale, Qvinto è un posto che pecca di scenografia: pur avendo le carte in regola per poter andare ben oltre la sufficienza, si perde troppo spesso nei barocchismi dell’alta borghesia palazzinara penalizzando la resa complessiva del locale a livello gastronomico; sacrificandola ad ogni passo sugli altari del varietà (e vendendo il risultato a colpi di moneta sonante).
In altre parole, da Qvinto si presta forse eccessiva attenzione a dettagli marginali del reame dell’apparenza, perdendo sovente di vista invece quelli, essenziali, che fanno la differenza in cucina e in sala.
Fare meno e meglio, scegliere una maggiore essenzialità tanto nella sostanza dell’offerta che nella sua forma, potrebbero essere una strada vincente per aggiungere a quello che è il gusto fortemente peculiare e personale del format un tocco di buon gusto; trasformando almeno in cucina i fiammeggiamenti kitsch del locale in un più consapevole camp.
Informazioni
QVINTO
Indirizzo: Via delle Fornaci di Tor di Quinto, 10
Sito web: https://qvintoroma.it/
Orari di apertura: Martedì-Domenica 9.30-2.00
Tipo di cucina: Pizza napoletana (e tutto il resto)
Ambiente: Sofistikitch
Servizio: Accogliente ma non del tutto preparato (però in livrea)