A volte poi ti sembra di stare a Napoli e basta: come da Pizzeche ‘e Vase, una pizzeria-trattoria schiettamente partenopea nella zona più viva e multi-tutto di Torino, San Salvario, senza ostentazioni perché non ha niente da dimostrare, con tutti i pregi e i difetti della pizza napoletana. E così sei talmente rilassato che ti metti a parlare in dialetto con tutti senza accorgertene, oppure a scattare le consuete foto ai piatti e all’ambiente senza cercare di ammacchiarti, tanto che alla fine il padrone quasi ti corre appresso e ti chiede: “Ma fammi capi’, poi fai ‘o report?”. Eccolo qua, ‘o report. O se preferite, la recensione.
Pizzeche ‘e vase, il format
Pizzeche e vase nun fanno pertuse, dice il detto antico, cioè pizzichi e baci non sono un attentato alla verginità, e prosegue: e maniate ‘e zizze nun fanno criature. Insomma un inno al petting. La frase è riportata nella famosa canzone Spingule francese e da il titolo al un altro pezzo, sempre del periodo classico del canzoniere napoletano. L’omaggio è chiaro, anche se compare un apostrofo di troppo tra la prima e la seconda parola – ma insomma il napoletano non ha mai avuto, se non per un breve periodo terminato 500 anni fa, carattere di lingua ufficiale e quindi gli errori ortografici commessi dai parlanti sono frequentissimi, e irrilevanti.
Sarà una mia fissa ma da un nome si può capire molto, quasi tutto. Un nome del genere vuol dire: sono di Napoli e te lo voglio far capire, faccio le pizze e quindi il gioco di parole PIZZEche ci sta, ma non vado a prendere il detto più famoso o la canzone più fischiettata, non mi chiamo ‘O sole mio o Ué uagliò, non ne ho bisogno. Aperto da un po’ più di tre anni, anche se si auto definisce “pizzeria friggitoria”, il format è quello di una classica pizzeria-trattoria, dove la cucina non è da meno rispetto al forno, e anzi lavora in simbiosi.
Ambiente e servizio
Posto all’inizio di San Salvario, da qualche anno the new thing di Torino tra movida e loschi traffici, due vetrate su strada, Pizzeche e vase dimostra quello che è da subito. Entrando c’è il forno a igloo in bella vista, ma ancora più in bella vista il carrello di verdure e ortaggi tipico napoletano: scarole e friarielli, mulignane e puparuoli, parmigiana e zucchine alla scapece, alici marinate e carcioffole, che stanno là a dire mangiami mangiami, e finiscono tanto sulle pizze che nei piatti come condimenti o contorni a sé.
Un ambiente unico con sale separate da arcate, non più di 60 coperti, ceramiche stile Vietri ma con fantasie blu su bianco molto sobrie, mattoni a vista ma tinteggiati di bianco (e la luce se ne avvantaggia), qualche poster di Napoli senza esagerare, qualche corno portafortuna appeso ma senza pacchianate.
Servizio perfetto: piatti che arrivano nei tempi giusti, cameriere gentile che si muove come un folletto tra i tavoli, ma non così in fretta da non fermarsi un minuto in più a spiegare una cosa o fare una battuta.
Dai gestori al pizzaiolo, dalla sala alla cassa, tutti napoletani (e nessuno che suona il mandolino).
Il menu e i prezzi
Antipasti fritti (nove), contorni di verdura (nove), pizze fritte ripiene (quattro), pagnottielli (quattro), freselle (due), insalate di testimonianza (cinque), taglieri e salumerie miste (cinque), dolci classici (otto). Un sacco di roba, ma ben ordinata, che non fa confusione.
La carta della trattoria è a parte perché più mutevole, comunque cinque o sei primi classicissimi (genovese, fagioli e cozze, patate e provola…), idem per i secondi. A stento li guardiamo, per non cadere in tentazione, ma quello che sbirciamo dagli altri tavoli ha una bella faccia di cucina casereccia.
Le pizze: ben ventotto, più un calzone, gli abbinamenti sono i soliti, gli ingredienti vari ma tipici (unico guizzo il pomodorino giallo, una cosa di recente acquisizione ma ormai anche lui un classico), la cosa più originale – e il solo ammiccamento – sono i nomi, che richiamano quartieri di Napoli e paesi della Campania.
Il bere è standard per una pizzeria napoletana caratterizzata tradizionalmente da una pessima scelta di bevande: il vino è “bianco o rosso”, le birre Moretti o Ichnusa.
I prezzi sono medio bassi, anche qui sembra di stare a Napoli ma siamo pur sempre a Torino: tutte le pizze, e in genere tutto tranne un paio di eccezioni, sono sotto i 10 euro; la marinara a 4,80 (primo prezzo), a 5,80 la margherita (proposta in variante con il formaggio grattugiato, anche qui siamo nella categoria dell’autentico-non-tradizionale).
I fritti e le pizze di Pizzeche e vase
Iniziamo col solito piatto di fritto misto che dividiamo in due. I pezzi a base di pasta lievitata – calzoncino e montanarina – hanno un evidente problema di lievitazione/cottura, perché si presentano pesanti e poco alveolati, mezzi crudi all’interno e con delle strane bollicine piene d’olio all’esterno. Il crocché è ok, un po’ indietro di sale. Buone la fetta di polenta e la mozzarella impanata (solo un po’ piccola), ottimo l’arancino, succulento e morbido. Ottime anche le zeppole semplici. (En passant: 3 pezzi su 7 non sono commestibili per i vegetariani, anche quando la tradizione non è così codificata come nel caso del prosciutto nel crocché di patate. Lo dico da compagno di vegetariana e simpatizzante, queste cose le osservo anche perché ormai i menu di qualsiasi livello sono veg friendly; e mi dispiace in particolare perché la cucina meridionale per sua natura è molto più accessibile a un vegetariano. Basta, chiusa parentesi.)
Le pizze. Impasto superclassico, sottilissimo e scioglievolissimo al centro; il cornicione non è molto pronunciato, non siamo dalle parti del canotto, più tendenti verso la ruota di carretto, anche se i dischi non strabordano dal piatto in modo clamoroso. Pezzi di cornicione carbonizzati (più in una che nell’altra), base ben “leopardata” in una e più tendente al bruciaticcio nell’altra. Questo è il classico esempio di quello che dico e ripeto (fino a che i miei commensali non mi sopportano più) sulla pizza napoletana e la sua cottura violenta: è una lotteria. Due pizze servite allo stesso tavolo, nello stesso momento della giornata, e cotte in contemporanea: tutte le condizioni di partenza sono uguali, eppure una è più cotta sopra e meno sotto, l’altra al contrario.
Come condimenti, al solito proviamo una rossa e una bianca. La margherita con melanzane fritte è golosissima, tutti gli ingredienti sono perfettamente amalgamati tra loro e con l’impasto. L’altra… è una pizza che non esiste, ma che dimostra l’elasticità e la disponibilità del locale: ero stato attirato da un “provola e scarola” senza accorgermi di essere passato a leggere la sezione dei calzoni fritti (e per questo sullo scontrino la vedete categorizzata come tale) ma un immediato “non c’è problema ve la facciamo a pizza” mi ha fatto pensare che pareva brutto tirarmi indietro, e che era il caso di testare anche l’improvvisazione. Test superatissimo: l’affumicato della provola domina ma non prevale, il dolce/amaro della scarola con olive bilancia alla perfezione; soprattutto lo strato di provola è abbondante senza risultare difficoltoso alla masticazione, o pericoloso alla deglutizione. Ed è così fino all’ultima fetta, quella più fredda – stessa cosa vale per l’altra pizza.
Chiudiamo con un ricotta e pere d’ordinanza, più ricotta che pere, non superlativa ma gustosa.
Digestione, conto
Paghiamo 35 euro, ben sotto la media torinese: molto napoletano è anche l’arrotondamento dei centesimi. La digestione è liscissima.
Opinione
Sembra proprio di stare a Napoli – ve l’ho già detto? – e non a Torino in un locale che vuole sembrare napoletano. A Napoli, in una pizzeria nella media, con tutti i pregi (assai) e i difetti (pochi) del caso, non la migliore del mondo ma insomma una dove ci vai e ci torni volentieri, e dove consigli a un amico di andarci tranquillamente. E tanto basta.
PRO
- Servizio rapido ma accorto e simpatico.
- Abbinamenti semplici ma golosi.
- Impasto scioglievole e digeribilità meravigliosa.
- Prezzi sotto la media di Torino.
CONTRO
- Fritto misto non perfetto, con alti e bassi tra i vari pezzi.