Perché la pizza italiana diventa, così spesso, oggetto di razzismo? “Quella non è pizza, è un abominio” urliamo a gran voce, guardando la pizza non italiana. Siamo sicuri che non sia pizza?
Che cos’è la tradizione?
“Il complesso delle memorie, notizie e testimonianze trasmesse da una generazione all’altra.” Ecco, ma se ci riferissimo a quella gastronomica?
Sinceramente non trovo una definizione migliore di quella conferita recentemente da Gianfranco Lo Cascio:
Un piatto della tradizione è il prodotto dello spirito d’avanguardia che ha avuto successo!
Di fatto, tutti (e dico TUTTI) i piatti della tradizione sono nati in un giorno preciso e più o meno definito del passato; qualcuno ha “inventato” un prodotto, che ha avuto talmente tanto successo da conquistare i cuori di tutti, comprese le generazioni successive.
La tradizione nello stivale
Le origini del piatto più celebre e amato al mondo, la pizza, si perdono tra gli scritti, le testimonianze e le dicerie popolari.
Certo è che, in un istante indefinito tra il Settecento e l’Ottocento, a Napoli iniziarono a emergere i primi pizzaioli; oggi la pizza è una tradizione certificata, rinomata e ben strutturata.
Eppure, il concetto da tenere sempre a mente è che la tradizione nient’altro è che un prodotto innovativo e consolidato nel passato; un prodotto con una sua identità differenziante, con caratteristiche profondamente diverse da qualsiasi altro pilastro gastronomico.
Il primo degli errori commessi è pensare che non possa esistere un processo continuativo del passaggio tra innovazione a tradizione. Prendete ad esempio il mondo della pizza in teglia alla romana: un’evoluzione vera e propria, nata dal pane, dal banco di un panificio, ed emersa a tal punto che oggi è senza dubbio definibile come tradizione.
E come tale, non ho alcun dubbio che un prodotto di forte identità come il Trapizzino possa un giorno subire lo stesso passaggio. Stefano Callegari è stato in grado di creare una nuova categoria, un brand distinguibile tra mille, e di esportarlo in tutto il mondo.
Tutti d’accordo? Bene, non avevo dubbi.
Del resto si tratta di noi, della nostra tradizione, di una delle culture gastronomiche più importanti al mondo e della quale siamo profondamente orgogliosi.
Gli italiani sono così, non perdono certo occasione per esternare un forte patriottismo.
Un diritto comune e sacrosanto.
Finché, ovviamente, non sfocia nel razzismo.
Il fenomeno migratorio
A partire dalla seconda metà dell’Ottocento e fino ai primi decenni del Novecento, l’emigrazione degli italiani nelle Americhe fu di cospicue dimensioni.
Nei periodi successivi, durante il fascismo, tale fenomeno calò rapidamente, per poi riprendersi subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale, e riducendosi ancora dopo il miracolo economico italiano degli anni ’60, fino ad esaurirsi quasi completamente fino agli anni ’80.
Le nazioni dove si diressero maggiormente gli emigrati italiani furono Stati Uniti, Brasile e Argentina.
La tradizione oltreoceano
Fine Ottocento e inizio Novecento, dicevamo, orma 100 anni or sono.
Un periodo più che sufficiente perché un’abitudine consolidata e di successo possa diventare tradizione a tutti gli effetti, giusto?
Sbagliato, secondo gli italiani.
Conoscete la Pizza New York Style? Un prodotto che ha avuto origine in quegli anni, a seguito proprio dell’emigrazione dei pizzaioli napoletani a New York. Una pizza che si è evoluta nel tempo, fino ad arrivare allo stile odierno: stesa a mano, con cornicione sottile e un diametro molto superiore alla media, venduta spesso a fette, molto croccante e con una base morbida e sottile.
Nella maggior parte dei casi, il condimento classico è semplicemente costituito da pomodoro e mozzarella.
E la Chicago Style?
In una città meta di immigrazione da tutta Europa (in quanto città in grado di offrire lavoro a migliaia di persone), è nata e si è diffusa a partire dalla fine della seconda guerra mondiale la celebre Deep-Dish Pizza: alta, profonda, cotta in teglia come una classica Apple Pie, ripiena di formaggio, occasionalmente carne, e ricoperta da salsa di pomodoro.
Singolare è anche la situazione del Giappone, una terra letteralmente ossessionata dalla pizza napoletana, così tanto da farne un ottimo prodotto, o da aver fatto divenire i pizzaioli le star tra le più amate della televisione. I segreti sono semplici: si impara dai maestri, si acquistano i forni giusti e le materie prime migliori.
E in Brasile? Sapevate che San Paolo è la città dove è più presente la più popolosa comunità con ascendenza italiana?
Pizze profondamente caratteristiche, un concentrato delle diverse peculiarità dei popoli immigrati; le varianti maggiormente tipiche sono quelle con pomodoro, mozzarella e salame piccante, oppure con prosciutto, formaggio, cipolle, olive e uovo sodo tritato.
Ancora, è possibile trovare farciture con pollo e catupiry, il tipico formaggio spalmabile.
Ad oggi il Brasile è il paese con il maggior numero di pizzerie al mondo, per un totale di 30 mila locali.
Numeri che fanno riflettere, da affiancare all’esorbitante dato del consumo pro-capite di pizza negli Stati Uniti: 13 chili annui secondo Coldiretti, contro i 7.6 registrati in Italia.
Non stupisce che, nel resto del mondo, quando si parla di pizza viene in mente l’America prima ancora dello stivale.
E non stupisce nemmeno che, sempre nel resto del mondo, a fare i soldi veri siano catene come Pizza Hut o Domino’s, per le quali un giorno di fatturato è nettamente superiore al totale annuo di una nostra pizzeria media.
Fa male, certo, ma è la pura verità.
Non è un segreto che a fare Marketing, in Italia, non siamo mai stati in grado.
Il razzismo gastronomico
Numeri o meno, il punto è un altro.
Che in USA si mangi pizza è UN FATTO, da oltre un secolo.
Lo stesso discorso vale per il Brasile o il Giappone, dove il piatto è ormai radicato ed estremamente diffuso, consumato anche più che in alcune regioni d’Italia.
È buona? Non è buona? Non incontra i nostri gusti?
È completamente diversa, come farcitura, dai canoni italiani?
Questioni puramente soggettive, niente di più e niente di meno.
Personalmente se ho voglia di pizza, di un’ottima pizza, la mia prima scelta ricade su una delle ormai tante proposte napoletane.
Ma chi è l’italiano per permettersi di abolire, schernire, insultare e condannare una tradizione altrui?
Chi è l’italiano per imporre la propria cultura, per affermare “quella non è pizza, è un abominio”?
Siamo testardi, intransigenti, offensivi e profondamente razzisti.
A ricordarcelo è persino lo chef David Chang, americano ma di origini coreane, che nella sua serie Ugly Delicious (Netflix) dedicata al razzismo gastronomico ha dedicato un’intera puntata alla pizza.
Secondo Chang, la colpa degli italiani è quella di considerare la loro versione come l’unica davvero esistente sulla faccia della terra, denigrando le altre.
Certo, nel corso dell’episodio vengono esternate parecchie inesattezze sulla tematica, o sulle diverse tipologie di pizza presenti nel nostro paese, ma riuscite davvero a dargli torto?
Andatevi a vedere uno dei tanti post che nell’ultimo periodo sono stati pubblicati sulla pagina Facebook di Domino’s Italia, a seguito dell’annuncio del progetto di Franchising che coinvolgerà diverse mete in più regioni.
“Hanno un bel coraggio a venire in Italia a vendere pizza!”
“Ora vogliono insegnarci a cucinare? Che stiano a casa loro!”
“La pizza peggiore che abbia mai mangiato, quella vera è solo napoletana, tutto il resto non esiste.”
“Schiavizzate i dipendenti per produrre cibo spazzatura, sareste da denunciare!”
Eccetera, eccetera, eccetera.
Eppure, Domino’s Italia vende, e alla grande.
Sarà per l’alternativa, o per l’efficace sistema di food delivery e di personalizzazione dell’ordine, ma vende, parecchio, e non certo ai soli turisti.
Accettazione, condivisione e segreti inconfessabili
Del resto, c’è una terribile verità che non siamo in grado di ammettere a causa del nostro insensato patriottismo.
Passi Napoli (e la Campania in generale), dove l’elemento tradizione permette ovviamente di trovare un’ottima pizza ovunque, ma è così anche nelle altre regioni?
Oggi il fenomeno è in continua crescita, ma specialmente in alcune regioni e fuori dalle grandi città la proposta è ancora pessima, indigesta, terribile.
E non parlo certo degli egiziani, chiariamoci.
Non basta essere italiani per potersi vantare di produrre buon cibo, nel modo più assoluto.
Eppure le testimonianze di razzismo continuano ad arrivare.
È di pochi giorni fa la notizia dell’assegnazione dell’Ig Nobel 2019 per la Medicina all’Italia, grazie all’improbabile ricerca che ha stabilito che la pizza protegge da malattie e morte purché fatta e mangiata nel nostro paese.
Silvano Gallus, il ricercatore che ha ritirato il premio, ha ricordato a tutti che una buona pizza racchiude tutte le virtù della dieta mediterranea. Gallus ha spiegato che la pizza può proteggere dall’infarto e da alcune forme di tumore; e fare ciò, però, gli ingredienti della pizza devono essere quelli della dieta mediterranea: bandite le svariate “interpretazioni” della pizza.
Ma in un 2019 in cui la globalizzazione fa parte della nostra vita, in cui non possiamo più pensare stato per stato, continente per continente, e ragionare invece in un contesto ampio e mondiale, ha senso continuare a ribadire simili confini?
Avete mai sentito la Florida insultare la nostra re-interpretazione del Barbecue, perché distante dai canoni di affumicatura e dolcezza estrema di alcune regioni?
E ancora, avete mai sentito un americano bistrattare le nostre ormai radicate versioni dell’hamburger, i giapponesi del Sushi, i cinesi dei ristoranti tipici italianizzati o i turchi del Kebab?
No vero?
Spesso all’estero l’accettazione e la condivisione di una cultura diversa dalla propria viaggia su tutt’altri lidi.
L’esempio lampante è quello di Casa Ramen, l’ormai celebre locale di Luca Catalfamo, nel quale propone una personalissima versione dell’iconica ciotola del Sol Levante.
Un successo è travolgente, al punto da divenire l’unico straniero a poter vantare un suo pop-up restaurant nel museo del ramen di Shin-Yokohama.
E già vi vedo, a darmi del traditore, colpevole di difendere una pizza che non è nostra, che non fa parte della cultura italiana e che offende le nostre tradizioni più care.
La verità è che oggi fa semplicemente rabbia vedere come un popolo rigoglioso e dalla cultura gastronomica diversificata come quella del Bel Paese sia ancora così tanto restio ad accettare la condivisione, l’unico vero perno per il futuro.