Prima di questa recensione non ho avuto occasione di parlare di persona con Marco Quintili, ma sono convinto che la scelta che ha fatto di inaugurare la sua pizzeria I Quintili proprio qui, in via San Biagio Platani – e cioè, in una zona di Roma che per anni è stata sui giornali solo per cronaca legata allo spaccio – sia stata pensata, voluta e creduta.
Sulla carta, a tutti interessano le periferie. Ne parla il cinema, ne parla l’architettura, ne parla l’arte a sfondo sociologico. Ne parla anche la gastronomia, ma più che altro quando si tratta di quartieri popolari giacenti sull’unghia delle fasce urbane più centrali, che sulla spinta di affitti a buon mercato diventano rifugi bohémien ed esplosioni di localini.
Quando il fermento gastronomico si avvicina alle periferie, non lo fa quasi mai considerando la loro natura problematica di spazi/non spazi, complessi e complicati, attraversati da una miriade di linee tensive economiche e sociali: l’interessamento del settore della ristorazione non è generalmente filantropico o disinteressato, ma per ragioni inevitabili di business, motivato dall’avere intravisto in una quantità di immobili sfitti e nei bassi canoni di locazione l’imminenza della next big thing, della crescita vertiginosa del valore delle attività, dell’affollamento di giovani in cerca di esperienze alternative – insomma, dell’avvento di una prossima gentrificazione.
Non deve essere stato così però per Marco Quintili, che dopo essere sbarcato a Roma da Pignataro Maggiore (Caserta) e aver lavorato per anni al Limoncello di Ciampino ha aperto nel 2018 la sua pizzeria a Tor Bella Monaca.
Se così non fosse, non me lo spiegherei: la borgata è fatta di catene interminabili di edifici popolari, di cordoli di cemento, di porticati che si ripetono ossessivi e infiniti e grigi come il singhiozzo del treno sulle traverse. Non c’è verde pubblico, se non quello che si ostina tra le crepe nell’asfalto. Tra gli anonimi dormitori mancano insegne, uffici e punti d’interesse.
Intorno non c’è ombra di riqualificazione in atto, nella sua accezione più puramente commerciale, tantomeno all’orizzonte: solo verità nuda e storie che non trovano mai voce.
Quindi mi dico, Marco, e correggimi se sbaglio: è stata una scelta la tua; e non di quelle fatte perché hai visto in un posto l’affare della vita… Ma perché sei uno che la periferia, nel senso più esistenzialista e stoico, ce l’ha dentro.
Il locale
Per arrivare ai Quintili si guida attraverso kilometri di cemento armato in déja vu continui, schivando le buche nell’asfalto, virando tra viali rettilinei trascinati in mezzo al nulla e campi da calcio, e traversine tutte uguali.
È domenica sera ed i coperti fuori sono al completo: è quasi esaurito anche il dentro, la sala approntata con il minimo sindacale dei decori e semi-spoglia, la gente pare venire dal quartiere come dal centro, in una folla eterogenea ma ordinata dai dettami del distanziamento sociale.
Il chiacchiericcio si leva fino a riempire l’aria, senza disturbare troppo.
In generale non si sta troppo comodi, tavoli e sedie sono piccoli ed il tentativo di creare un’atmosfera riservata, usando lampade dall’illuminazione soffusa, rende l’impatto di quest’oasi di luce e calore contro l’ambiente circostante vagamente onirico e straniante.
Il servizio si rivela abbastanza pronto, con i tempi giusti tra le portate, flessibile nell’accontentare le richieste della clientela anche grazie a una cucina che gira a mille, a tratti forse un po’ ingenuo nel rispondere ad alcune osservazioni. Qualche goffaggine di troppo non influisce negativamente sull’efficienza, e semmai regala, qua e là, il piacere di un sorriso.
Il menu viene offerto sia in cartaceo che in versione digitale, da consultare tramite QR code.
Il menu e i prezzi
La carta, lista-fiume se ce n’è una, si apre con gli antipasti della tradizione campana rivisitati in varianti golose: cinque varianti di frittatine di pasta (dai 3 ai 4,5 euro), sette di crocchette di patate (dai 2,5 ai 3,5 euro), tre di “nuvole di pizza” (che altro non sono che le classiche montanarine fritte, dai 4 ai cinque euro); sono seguiti da ben ventuno pizze speciali (da 8,5 a 12 euro) e dodici classiche (da 5,5 a 10 euro). Bonus extra, una pizza fritta (10 euro) e un battilocchio (piccolo calzone fritto, a 6 euro).
Oltre che lungo, l’elenco delle vivande si rivela anche particolarmente articolato, con combinazioni di ingredienti, soprattutto per le pizze speciali, talvolta molto complesse.
Apprezzabile e segnalato sul menu l’utilizzo, per ogni pizza, di un diverso olio extravergine in abbinamento: ma anche questo fa in modo che ci vogliano dieci minuti buoni, forse quindici, per raggiungere un compromesso definitivo sull’ordine.
Decisamente più facile invece ragionare sul bere: la selezione di birre in bottiglia spazia attraverso il panorama industriale, da Nastro Azzurro a Messina a Beck’s (da 3 a 4,5 euro per 0,5 o 0,66L), per culminare nell’offerta artigianale di qualche referenza Baladin in bottiglia (6 euro per 33cl). È di Baladin anche una delle due vie alla spina, con la Isaac (7 euro la 0,4L): torniamo all’industria con l’altro rubinetto, occupato da Ichnusa (5 euro, 0,4L).
Presente una piccola carta dei vini, senza troppe pretese, a ricarichi onesti.
I fritti e le pizze
La nuvola di pizza fritta “sbagliata” (con rucola, pomodorini e stracciatella, 5 euro) che ordino si rivela ben fritta, asciutta e golosa, per quanto leggermente gommosa alla masticazione e quindi non esattamente una “nuvola”. La generale bontà dell’impasto non trova del tutto riscontro nei condimenti, che forse banalizzano un po’ l’insieme.
Buona la crocchetta spuma di burro e alici (3,5 euro), esageratamente cremosa e dal sapore intenso di patata sottolineato da note terrose, dalla frittura impeccabile e irrorata dalla generosità della spuma di burro, puntellata dalla sapidità portuale e carnosa delle alici. Nota negativa, l’aggiunta dei germogli di barbabietola, che interferiscono con la genuinità diretta dell’esperienza.
Ma veniamo alle dolenti note: la frittatina di pasta classica (3 euro), regina dei fritti napoletani, non va assolutamente bene… Perché finisce subito. Perfettamente eseguita, strappa con facilità la palma di migliore dei tre antipasti, ferma restando la validità degli altri due, e vola nell’Olimpo delle migliori frittatine mai assaggiate.
Pastella? Croccante, soda e sottile. Maccheroni? Ben cotti, consistenti e “vestiti” adeguatamente di condimento. Salsiccia di qualità superiore, presumibilmente nero casertano, mordibile, sapida e piacevolmente untuosa. Ed infine, la vera protagonista: una besciamella prodotta in casa lustra, morbida, avvolgente, ricca di noce moscata.
Mordere questo scrigno fa schizzare le papille dritte contro l’ippocampo, un jackpot di memorie, spinto al massimo della concentrazione aromatica, tattile e gustativa senza mai travalicare la soglia dell’eccesso.
Ed infatti ne ordineremo immediatamente un’altra, nella variante alla parmigiana (4,5 euro): il miracolo, in tutt’altra chiave, si ripete. Umami puro. Succulenza. Conforto. Peccato. Tutta la vita di pranzi siciliani della Domenica che si srotola sincronicamente dietro agli occhi. Fame che non si placa, e inaspettatamente anzi riverbera e s’amplifica.
È la volta delle pizze, che si presentano scenografiche e golose: abbiamo scelto la Monaco (12 euro) e la Gricia in fiamme (10 euro).
Visivamente si presentano in forma casertana “moderata”, con il canotto ormai distintivo della nuova scuola campana presente ma ben commisurato alla superficie condita, cottura a macchia di leopardo priva di bruciature compromettenti seppur non completamente omogenea; con la fetta perfettamente in grado, nella sua palese elasticità, di sorreggere i condimenti.
Al morso l’impasto è davvero notevole, senza dubbio tra i migliori presenti a Roma, decisamente campano e della miglior specie: crosta sottile che più che croccare “frizza” per una frazione di secondo tra i denti lasciando spazio a una sensazione fondente prolungata, elastica senza mai scadere nel gommoso, di alta solubilità e media persistenza. Cornicione gudurioso, e mai invadente o indigesto nonostante il volume esibito. La leggerezza è notevole.
Cambia il discorso se esaminiamo la scelta dei topping; che in direzione esattamente opposta al virtuosismo esibito nell’impasto tendono talvolta a stridere penalizzando l’insieme: la gricia in fiamme, ad esempio, è servita con una base di mozzarella di bufala, pecorino e pepe di per sé celestiale (con tanto di ciliegina di mozzarella a crudo, che posso definire con tranquillità “commovente”).
Su tale base vengono disposte, a croce, due fettine di guanciale che sfrigoleranno al tavolo quando, una volta servita la pizza, il cameriere la incendierà.
Il coup de théâtre è senz’altro divertente, se non fosse che la base alcolica usata per la flambata – che nonostante il cameriere non sia riuscito a specificare nulla di più che “alcol commestibile” direi essere vodka, e non delle più buone – non evaporerà del tutto quando il guanciale sarà cotto a puntino ed impregnerà la base, sostanzialmente rovinando il godimento dell’esperienza con una nota etilica “cruda” sgradevole e conflittuale.
Se per contro deciderete di lasciar sfiammare l’alcol finché non sarà evaporato del tutto, il guanciale brucerà: si tratta di un errore concettuale che cede con troppa facilità alla voglia di spettacolo, e in genere a una deriva “Napoli food porn”, trascurando gli esiti finali di tecniche e ingredienti impiegati in termini gustativi.
Ora, se ci trovassimo di fronte ad un pizzaiolo qualsiasi, che per impressionare agilmente le folle ha bisogno di effetti speciali, questo atteggiamento sarebbe comprensibile: dato che siamo invece di fronte a pizze potenzialmente eccellenti, “rovinate” (relativamente) dall’eccesso di spettacolarizzazione, va invece notato e colto come un invito a sgrossare e rifinire certe preparazioni.
Discorso in certa misura analogo si potrebbe fare sulla seconda pizza ordinata, la pizza Monaco (datterino giallo, crema di cavolfiore, stinco CBT, cipolla croccante e petali di pomodoro), che per quanto complessivamente bilanciata e gradevole risulta animata da una vena se non altro “bizzarra”; in cui gli sfilacci di stinco, piuttosto asciutti, e le cipolle croccanti “tipo IKEA” riescono ad evitare un generale “effetto carne in scatola” solo grazie alla succosità geniale dei datterini gialli interi, cotti al punto da esplodere in bocca senza lasciare traccia, e alla concentrazione gustativa del pomodoro rosso disidratato.
Scelte sbagliate? È possibile; ma sappiate che gran parte delle altre pizze “speciali” in carta risultavano altrettanto articolate, quando non addirittura improbabili. E si badi che non voglio passare per nostalgico o tradizionalista: sì alla creatività, sì al 100% alla creatività sulla pizza, a patto che questa sia mediata da uno studio concettuale improntato all’armonia e all’eleganza ragionata (vi dice niente il nome Pier Daniele Seu?) e non a uno sterile esibizionismo.
Un po’ deluso dalle scelte fatte e dalla loro realizzazione, un po’ agevolato dalla grande digeribilità della base, decido infine di rendere onore a questo meraviglioso impasto tornando alle origini: e ordino una margherita (6 euro).
Ecco, mi arrabbio: è poesia. Più napoletana che a Napoli. Velata di un pomodoro appena acido che incontra tanto fiordilatte filante… tanto, due foglie di basilico leggermente passite, insegue l’impasto per consistenze fluide in una girandola gustativa semplice e indifendibilmente perfetta; si chiude nel ritorno del parmigiano che aggiunge dolcezza e un finale di glutammato quasi catartico.
Il dolce che scelgo è un semifreddo al cioccolato “in collaborazione con Kinder e Ferrero” (così mi viene detto, 6 euro): per quanto gradevole nella sua spiazzante crassezza, questo dessert diventa un po’ l’emblema paradossale di questo posto che, con tutte le carte in regola per sognare in grande e ambire al massimo, spesso scivola in un’ingenuità che lo spinge ad abbracciare il canto delle sirene, e ad accontentarsi di adeguarsi alla dimensione instagrammabile di king delle palazzine… Posizione che, pur se ottenuta con grande coraggio e che sono certo offra in certa misura un suo peculiare comfort, può essere adesso agevolmente superata con un lavoro di rifinitura che punta alle stelle.
L’opinione
Opinione
I Quintili è un’ ottima pizzeria che non deve smettere di mostrare il coraggio che ha esibito per raggiungere la dimensione di successo e fama in cui si trova, per uscire da quella stessa e andare oltre. L’impasto della pizza ed alcuni degli antipasti sono senza discussione tra i migliori di Roma. Può migliorare sgrossando gli aspetti più chiassosi dell’offerta in funzione di una ricerca dell’eleganza e dell’equilibrio, sottraendo elementi anziché aggiungendone. Certo è che la finezza non si impara, ma è altrettanto certo che con caparbietà può essere affilata ed allenata… E un pizzaiolo capace di richiamare gente da tutta la città, nonostante abbia aperto nella periferia più periferia che c’è, questa caparbietà non può non averla.
PRO
- Gli impasti ottimi
- La capacità di brillare in periferia
CONTRO
- Il menu confusionario
- Carta birre migliorabile