La battuta di una decina di giorni fa del presidente Matteo Ascheri aveva fatto trapelare qualche cosa. Ma ora è ufficiale: il Vinitaly appena concluso è stato l’ultimo per il presidente del Consorzio del Barolo e Barbaresco. Boom. La notizia raggela l’entusiasmo post-fiera.
A farlo sapere è Matteo Ascheri in persona che dopo «meglio il centro di Torino che la periferia di Verona» nel corso dell’ultima giornata di fiera dal suo stand al padiglione Piemonte ha detto chiaro e tondo che per lui è tempo di «scendere dalla giostra».
Le motivazioni? Secondo l’imprenditore a capo del Consorzio a Vinitaly si respira «un’aria stanca: è un rito che si ripete con fatica anche se è stato fermo per due anni» commenta in un’intervista a La Stampa. Per Ascheri sembra dunque arrivato il momento di uscire dal paradigma fieristico definito un «modello ormai del tutto superato». E a quanto pare non è l’unico a pensarla così tenendo conto dell’assenza, già da quest’anno, di alcune cantine del Consorzio (pensiamo a Ratti e Saracco).
Ma siamo sicuri che a scoraggiare i produttori di Barolo e Barbaresco sia solo l’«aria fiacca»? Non è che si tratti della selezione all’ingresso ancora troppo timida? Di questo se ne parla da anni. Da quando all’ora della chiusura dei padiglioni lo scenario era più consono ad un sabato sera in un pub di Londra che alla più prestigiosa vetrina del vino Made in Italy.
È sempre La Stampa a riportare le perplessità di Giuseppe Cavallotto, barolista di Castiglione Falletto. «Stiamo valutando se puntare ancora su questa fiera, senza dubbio ci vorrebbe una maggiore selezione» commenta. Poi rincara la dose sul senso ultimo di investire in uno stand affermando «in fondo facciamo degustare vini che abbiamo già venduto».
Una doccia gelata. Certo, non tutti la pensano come Ascheri. C’è chi in questi giorni ha fatto affari d’oro agganciando contatti con possibili acquirenti in nuovi paesi. Rimane che per il presidente del Consorzio di Barolo e Barbaresco questo suona proprio come un non troppo velato addio alla fiera di Verona che dal prossimo anno potrebbe ospitare un Vinitaly parzialmente orfano di una delle realtà più rappresentative nel mondo del panorama vitivinicolo italiano. Uno scossone (o una provocazione) che potrebbe richiamare ad una riflessione l’intero settore.