Ma chi l’ha detto che la critica gastronomica è morta e sepolta?
Chi mai ha affermato che critici, recensori, blogger e giornalisti che scrivono di cibo siano quasi tutti, in fondo, una banda di opportunisti, personaggi pronti a vendersi e a scrivere meraviglie di osti e locali in cambio di un pasto gratis?
Ah, sì, eravamo stati noi.
O meglio, eravamo stati “anche” noi.
Da anni, infatti, qualche sparuto recensore fuori dal coro denuncia a pieni polmoni tale malcostume ormai diffussssimo, deprecando l’abitudine dei ristoratori di omaggiare critici e blogger di pasti gratuiti sperando in una recensione addomesticata e favorevole. Inviti a cui gli sciagurati critici rispondono puntualmente con gioia e appetito.
E così, per effetto di questi usi ormai consolidati, la critica gastronomica negativa sembra essere sparita dal panorama italiano, annientata dalla mancanza della necessaria distanza tra giudice e giudicato.
Qualche mosca bianca, dicevamo, la cui voce si distingue per obiettività e oggettività esiste, ad ogni modo: stiamo parlando ad esempio di Valerio Massimo Visintin, il critico mascherato che nasconde la sua vera identità dietro uno spesso passamontagna nero: le recensioni che scrive per il Corriere della Sera, spesso sarcastiche e implacabili, si abbattono con fredda precisione sui ristoranti non giudicati all’altezza, così come la leggerezza e il garbo traspaiono dalle recensioni dei locali giudicati in modo positivo.
Così come ha fatto eccezione al comune andazzo anche Federico F. Ferrero, giovane medico già vincitore di una scorsa edizione di Masterchef. Indossati brevemente i panni del critico gastronomico senza macchia (prontamente dismessi in favore di un ruolo meno spericolato, quello dell’esperto di cucina italiana), Ferrero ha messo nero su bianco le stroncature di due templi del gusto come Enoteca Pinchiorri a Firenze e Uliassi a Senigallia, finendo per essere omaggiato su web e social di graziosi epiteti qui non riportabili, ad eccezione dei più gentili quali “ignorante” e “buffone”.
Attenzione però: se la critica gastronomica italiana versa attualmente in questo (triste) stato, non è detto che sia così anche altrove. Anzi, in altri Paesi, soprattutto quelli anglosassoni, le recensioni negative costituiscono la norma, tanto quanto quelle positive; non è infatti per niente inusuale leggere critiche feroci e recensioni al vetriolo, condite con generose dosi di fine sarcasmo e bieca perfidia.
E la giornalista Kate Krader ha pensato bene di raggruppare per Bloomberg le dieci migliori recensioni, o meglio le peggiori, stilate negli ultimi anni da alcuni tra i più noti e disincantanti critici gastronomici inglesi e americani.
Buona lettura.
10. TAVERN ON THE GREEN
Ryan Sutton per Eater
Essenziale e implacabile, Sutton ha visitato il Tavern nel 2014, dopo la grandiosa ristrutturazione da 38 milioni di dollari, godendosi lo spettacolo della pioggia che scendeva dalle ampie vetrate della nuova e imponente hall del locale, e godendosi attimi di vero relax. Finché non è arrivato il cibo. La sua recensione infatti portava un titolo essenziale ed esplicativo: “il Tavern on the Green è un cattivo ristorante”. Più chiaro di così…
Piatto da segnalare: sandwich al Gruyère e formaggio di capra.
“Due minuscole fette di pane – scrive Sutton – spalmate con così tanto grasso da far invidia a un liquido lubrificante. Per ben 14 dollari”.
Le righe più velenose: “Un luogo dove un piatto di pasta imprigionato nel formaggio vi costa la modica cifra di 22 dollari. E quando il cameriere vi offrirà un ulteriore topping a base di salmone, giusto perché non c’è niente di meglio di un bel pesce grasso da abbinare a del formaggio altrettanto grasso, avrete finalmente la certezza di aver speso 32 dollari per quanto di peggio possiate trovar da mangiare sulla faccia della Terra”.
9. FOUNDING FARMERS
Tom Sietsema per il Washington Post
Uno dei locali più trafficati e scoraggianti di Washington, scrisse Sietsema, critico di lungo corso del Washington Post; a cui assegnò zero stelle.
Piatto da segnalare: gamberi con crumble di fiocchi di avena.
“Dovendo rispondere a una precisa domanda del cameriere, avrei tanto voluto dire che la palude che mi ritrovavo nel piatto e annunciatami come “gamberi con fiocchi di avena” era vicina alla classica ricetta del Sud quanto il rap lo è alla musica classica”.
Le righe più velenose: “Sembra di stare in una caffetteria”, disse un mio collega durante una notte trascorsa in una delle camere del locale al secondo piano, dove uno stormo di uccelli di ceramica fluttuava sopra le nostre teste; in realtà, io invidiavo la loro liberà, ma in fondo anche loro erano bloccati lì, proprio come noi”.
“Con mia grande sorpresa –ha commentato il critico a distanza di tempo– la recensione divenne virale, al punto da essere la storia più letta sul Washington Post. Il mio editore disse che la stavano leggendo anche in Cina e in Russia”.
8. OLIVE GARDEN
Jonathan Gold per L. A. Weekly
Nel 2011 il noto critico gastronomico di Los Angeles rimase bloccato nel traffico, finendo così per entrare all’Olive Garden, dove lo aveva preceduto la fotografa che nel frattempo si era accomodata a un tavolo e sbocconcellava dei grissini “impomatati con grasso e olio”. Il critico ha poi stilato una recensione spassosissima.
Piatto da segnalare: parmigiana di melanzane.
“In realtà si trattava di sfoglie (il critico usa la parola Pringles, le note sfoglie di patata croccanti) di melanzana avviluppate un una serie di corde di mozzarella coriacea”.
Le righe più velenose: “ Avrei voluto dire che il il mosciume del fritto dei calamari era superiore solo a quello dell’impanatura fradicia”.
7. QUATTRO PASSI
Jay Rayner per il Guardian
Il noto critico del Guardian è uno di quelli per cui anche la critica più benevola può suonare irriverente e sarcastica. E la recensione fatta nel 2014 per il Quattro Passi è stata veramente esilarante.
Piatto da segnalare: patate.
“Ho cercato di immaginare –scrive Rayner– il momento in cui i gestori hanno deciso di servire un piatto di patate novelle poco arrostite, unte, molli, cucinate in precedenza e poi riscaldate, alla “modica” cifra di ben sei sterline. Avranno forse giocato a chi la sparava più grossa nell’alzare il prezzo da proporre, gongolando sull’immenso ricarico?”
Le righe più velenose: “Non ho alcun problema a spendere i miei soldi nei ristoranti, ho anche pagato più di 282 sterline per un solo pasto. Ma deve essere memorabile. Non può essere una semplice scorreggia di mediocrità, con prezzi per clienti esclusivi che hanno depauperato il prodotto interno lordo di una piccola nazione impoverita (evidentemente si riferisce all’Italia, n.d.r.) e che ora stanno a Londra solo per ragioni fiscali”.
6. THE MONTANA’S TRAIL HOUSE
Joshua David Stein per l’Observer
In una recensione del 2014, in cui non assegnò alcuna stella, Stein scrisse che la cucina del locale era una cucina “che sapeva di marciume, ma nello stesso tempo insipida e moralmente insidiosa”
Piatto da segnalare: pollo fritto.
“Purtroppo, c’è il solito, generico cibo che si trova nei locali che iniziano per “The” o che contenono una “&” nel loro nome. Un pollo fritto del tutto deludente, oltretutto proposto al prezzo di 18 dollari”.
Le righe più velenose: “C’è una relazione profondamente perversa tra la storia e l’America che si trova al Montana’s Trail House. Non c’è bisogno di essere originario degli Appalachi per opporsi al culto da cartolina di una regione impoverita a uso e consumo di false persone di frontiera provenienti in realtà da Brooklyn”.
5. TAO
Ryan Sutton per Bloomberg
In una recensione del 2013, Sutton testò il nuovo avanposto dei ristoranti “fusion”. Qui, i menù dilettano i clienti con massime filosofiche di Buddha, mentre nello stesso tempo vengono offerte bottiglie di Johnnie Walker Blue a “soli” 800 dollari l’una.
Piatto da segnalare: manzo Wagyu.
Nonostante “le salse e i sughi sofisticati”, il manzo Wagyu servito non è certo più tenero o saporito di una bistecca da 10 dollari di una qualsiasi steakhouse. Ma qui, pagherete 88 dollari per questo privilegio”.
Le righe più velenose: “Complimenti ai proprietari per aver trasformato Siddharta, uno dei più grandi maestri dell’ascesi e dell’auto-privazione, in Paris Hilton”.
4. HARRY CIPRIANI
Frank Bruni per il New York Times
L’ex critico gastronomico del Times ha recensito il ristorante italiano di New York nel 2007 dandogli uno scarso punteggio. Ma ha ammesso che la fauna dei clienti era ineguagliabile da osservare: “raramente si vede la ricchezza sprecata in modo così evidente”, ha scritto Bruni.
Piatto da segnalare: patate.
“Ora sto prendendo coscienza del fatto che effettivamente fossero patate. Questo almeno è ciò che sembravano, quelle sfoglie secche color giallo-beige che avrebbero potuto essere usate per farsi uno scrub alla pelle, da qualsiasi padella fossero uscite fuori”
Le righe più velenose: “Attraverso gli anni, la famiglia del ristorante Cipriani e i suoi impiegati hanno affrontato accuse di molestie sessuali, frode all’assicurazione e evasione fiscale, reato quest’ultimo per cui due componenti della famiglia sono stati giudicati colpevoli. Ma il crimine che per primo mi viene in mente quando penso al Cipriani è di sicuro la rapina”.
3. GUY’S AMERICAN KITCHEN & BAR
Pete Wells per il New York Times
Pete Wells, attuale capo della sezione critica gastronomica del New York Times, ha recensito il Guy’s, ristorante del popolare chef Guy Fieri, popolare sì ma abbastanza detestato dalla critica gastronomica, nel 2012.
Piatto da segnalare: pretzel di pollo
“Hai trovato i pretzel di pollo impressionanti? Bene, se non si conoscesse la ricetta, chi avrebbe mai potuto indovinare che la lucida impanatura che trasuda grasso nel piatto contenesse sia pretzel che mandorle tostate?
Le righe più velenose: “Hey, hai provato quella bevanda blu, quella che brilla come fosse fatta con scorie nucleari? E il margarita al cocomero? Hai un’idea del perché sappia di un misto di liquido per il radiatore e formaldeide?”
2. TRUMP GRILL
Tina Nguyen per Vanity Fair
Tina Nguyen, giornalista il cui campo di attività è in realtà la politica, ha preso nota di tutto, dalla situazione dei bagni al fatto che, racconta la giornalista, il bulbo oculare di maiale che ha mangiato una volta per sfida fosse migliore del Trump Grill’s Gold Label Burger, per finire con l’arredamento in stile francese che “pareva acquistato in un supermercato del mobile (Home Goods)”. E cita l’ormai famosa frase di Fran Leibowitz di Vanity Fair che recita che lo stile Trump è “ l’idea che i poveri hanno dei ricchi”. Vanity fair ha inoltre reso noto che dopo la risposta su Twitter del presidente degli Stati Uniti si sono registrati ben 13.000 nuovi abbonati alla rivista americana.
Piatto da segnalare: Filet Mignon.
“La bistecca è dura e farinosa, con una disgustosa vena di puro grasso che l’attraversa; inoltre gridava aiuto chiedendo a gran voce della salsa (mancava infatti la promessa demi – glace). Oltretutto, il piatto deve essere stato troppo inclinato durante il suo viaggio dalla cucina alla tavola, visto che la bistecca era praticamente coricata sopra le patate da un lato, come un cadavere disossato dentro un Tir”.
Le righe più velenose: “Il fascino del ristorante di Trump è che sembra una versione a buon mercato di un locale ricco. I menù inconsistenti sono pieni di classici piatti da steakhouse, bagnati con inutili salse fatte con ingredienti di fascia alta”.
1. L’ AMI LOUIS
A. A. Gill per Vanity Fair
La palma come recensione migliore del locale peggiore ove recarsi per i propri pasti appartiene all’arguto e brillante critico Gill, purtroppo recentemente scomparso.
Le sue “peggiori” recensioni iniziano con “Perché non c’è mai in giro un suicida palestinese quando ne hai bisogno?”, oppure “dimmi, quali due caratteristiche dovrebbe avere una minestra calda e asprigna? Non è il caso che tu ci stia a pensare troppo: tanto, non ne aveva nessuna delle due”.
Ma la migliore recensione di Gill è stata quella del 2011 per il ristorante L’Ami Louis di Parigi, dove si è lamentato della clientela, del servizio –“oh, così francese”– e soprattutto del cibo, con piatti quali ed esempio le lumache, che ha paragonato a “caccole di dinosauro”.
Piatto da segnalare: foie gras.
“Dopo 30 minuti mi sono arrivati un paio di grosse palline di paté freddo, ricoperte da un leggero strato di un grasso giallo e pustoloso. Erano dense e filanti, con un’intera rete di vene. Dubito fossero state cucinate sul posto. Il paté si sbriciolava sotto il coltello come stucco idraulico e aveva un sapore di burro profumato o anche di grasso da liposuzione compresso”.
Le righe più velenose: “Come se volesse scusarsi, il cameriere mi ha portato una pira funebre di patate fritte, che sapevano di troppo olio, oltretutto riutilizzato, e poi un’insalata verde composta da foglie di insalata riccia e valeriana, due tipi di insalata che raramente possono coesistere stesso piatto, a causa delle loro inconciliabili differenze”.
[Crediti | Link: Bloomberg, Dissapore]