Domenica sera con la mia famiglia siamo andati all’Iftar.
L’Iftar è il banchetto che si tiene alla fine di un giorno di Ramadan, al momento del tramonto: dopo aver digiunato per tutto il dì, i musulmani si ritrovano in famiglia e mangiano.
Di solito è una cosa privata, che si fa tra le mura domestiche, ma la comunità musulmana di Torino tre giorni fa ha deciso di fare un iftar collettivo, in piazza, invitando tutta la gente del quartiere.
Un quartiere, il mio, particolarmente multiculti: le tavolate erano in fronte a una chiesa cattolica, quella valdese è a cento metri, la moschea a un passo, la sinagoga a due.
Quando siamo arrivati –poco dopo le 21.14, ora del tramonto– c’erano già centinaia di persone sedute a lunghissime tavolate, tipo quelle delle sagre.
Vedere tante persone così cenare assieme, chiacchierando, ridendo, è sempre bello. Ancora di più se il messaggio è di quelli positivi: stare assieme si può.
Ingozzandomi di datteri, ho fatto una profonda riflessione: un po’ mi spiace non avere con il cibo il rapporto speciale che hanno i credenti di qualsiasi fede.
Per costoro, ad esempio, la privazione del Ramadan è purificazione; questo banchetto è comunità. Le religioni dimostrano che il cibo può essere molto altro e non solo piacere.
E’ anche vero che le religioni sono zeppe di precetti alimentari astrusi: e non mangiare questo, e non mangiare quello, e non mischiare, evita il maiale, non accostare il formaggio con la carne, santifica la mucca, non mettere lo lievito nel pane, rifuggi i frutti di mare…
Ecche-è! Potrei affrontare tutto questo?
Onestamente non lo so. Devo pensarci.
Andrò a bermi una buona barbera per chiarirmi le idee.