Vero, probabilmente dovremmo guardare in casa nostra – ma c’è qualcosa di equamente rassicurante e spaventoso nel vedere che in questo caso l’erba del vicino non è affatto più verde. Negli Stati Uniti, infatti, il tasso di inflazione continua a correre, mettendo a segno un aumento dell’1,3% su base mensile e qualificandosi di fatto per un rincaro su base annua dell’9,1%. Un picco così alto non si misurava dall’ormai lontano novembre 1981, periodo del primo mandato della presidenza di Ronald Regan segnato dallo scandalo Iran-Contra.
Così come dalle nostre parti (ma non solo – pensiamo anche a Francia e Regno Unito) il rincaro dei prezzi è causato da un insieme relativamente complesso di fattori, che di fatto spaziano dalle conseguenze della guerra in Ucraina agli strascichi della pandemia. Il Presidente Joe Biden, tuttavia, pare essere di tutt’altro accordo: secondo il suo parere si tratta infatti di un “dato obsoleto”, e nel corso di un’intervento dalla Casa Bianca ha spiegato che l’inflazione core sia “in calo per il terzo mese di fila, è il primo mese dall’anno scorso in cui questo indicatore scende sotto il sei per cento” – pur riconoscendo che la situazione attuale del tasso sia “la nostra sfida economica più pressante”. A onor del vero occorre poi sottolineare che di fatto l’indice core, quello depurato dai costi dell’energia e del cibo, è in realtà cresciuto dello 0,7% su giugno e del 5,9% su base annua – rincari verosimilmente causati dai prezzi record raggiunti dalla benzina, che si tengono su una media di oltre 5 dollari al gallone.
Notevoli anche i prezzi dell’energia – +41,6% in solo anno, l’aumento più alto da aprile 1980 -, gonfiati dallo scontro sugli approvvigionamenti di gas dalla Russia. La prossima mossa è nelle mani della Federal, che mira a riportare l’inflazione su un 2% – gli esperti si aspettano un aumento del tasso dello 0,75% nella riunione di luglio, e poi un ulteriore rialzo nella riunione di settembre.