Se l’obiettivo era ottenere il massimo della visibilità in modo rapido, non si può certo dire che Starbucks non l’abbia centrato in pieno.
L’operazione “palme” in piazza Duomo a Milano, sponsorizzata dalla catena di caffetterie della sirena verde che aprirà nel 2018 in Italia, ha infatti avuto una clamorosa risonanza mediatica.
E se si pensa che a fornirla sono state delle innocenti palme, il plauso per l’azzeccata operazione di marketing diventa più che mai doveroso.
Le palme che tanto stanno facendo discutere gli italiani sono costate poco più di 200.000 euro, e la discussione pare inevitabilmente destinata a salire di tono con l’avvento di altre piante esotiche, questa volta di banane.
Un’onta, secondo alcuni, al decoro milanese, con palme e banani ritenuti colpevoli di aver dato un’impronta eccessivamente “esotica” alla piazza, diventata una sorta di “habitat naturale per popolazioni non autoctone “. E nemmeno troppo gradite, evidentemente, visto che si è parlato di “africanizzazione di Milano”.
Il disagio è sfociato in fiumi di commenti infuocati sui social, con tanto di esponenti politici impegnati a darci le loro illuminanti opinioni.
Non solo: dalle parole si è passati ai fatti, quando qualche buontempone poco amante di ambientazioni “forestiere”, ha dato fuoco a un paio delle incolpevoli palme decorative, alimentando insieme ulteriormente il fuoco della discussione.
E a proposito di tale scelta decorativa, viene spontaneo chiedersi se la scelta di piazzare palme e banani in uno dei luoghi più radicati nel cuore dei milanesi sia frutto di una semplice scelta estetica o piuttosto di un abile calcolo volto ad assicurarsi visibilità immediata e a buon mercato.
Del resto, lo stesso Marco Bay, l’architetto incaricato da Starbucks di realizzare il progetto decorativo per la multinazionale del Frappuccino, sulle contestate palme ha detto a Repubblica di “essere contento che se ne discuta e che la gente le fotografi”, anche se, ha continuato, “Miami non c’entra, queste sono palme lombarde: sono presenti da sempre nei nostri giardini”.
Nel frattempo, tra palme e banani, tra polemiche e scontri verbali, i lavori per l’apertura del primo Starbucks italiano –ambientato nel Palazzo delle Poste in piazza Cordusio, come Dissapore aveva già annunciato— procedono spediti.
E anche Percassi, l’imprenditore partner di Starbucks in Italia, che ha già portato nel nostro Paese marchi come Zara o Victoria’s Secrets, si dice fiducioso del riscontro degli italiani, tanto da annunciare non solo l’apertura di altri 4 o 5 punti vendita in Italia subito dopo l’inaugurazione milanese, ma anche l’arrivo di ben “due o trecento” altri Starbucks in Italia nel giro di cinque o sei anni.
Un progetto grandioso, forse al limite dell’azzardo, considerata la salda tradizione italiana verso il rito dell’espresso al bar o della tazzina preparata nella moka di casa, ma che non fa perdere d’animo Percassi, né tantomeno Howard Schultz, colui che, osservata la “magnifica rappresentazione teatrale che va in scena ogni volta che in un bar italiano viene servito un caffè“, grazie a un viaggio a Milano del 1987, ha trovato l’ispirazione per fondare la catena che oggi conta ben 23.000 locali in tutto il mondo.
Sarà una vera e propria sfida, quella di traghettare gli italiani dall’espresso del bar a un euro al costoso bicchierone di caffè americano o di Frappuccino, ma Percassi assicura di aver “progettato tutto nei minimi dettagli, con grande rispetto per il popolo italiano e la cultura del caffè”.
E a ben vedere, i prodotti della catena americana non sembrano in reale competizione con la classica tazzina, offrendo invece una sorta di bevanda dal sapore internazionale che poco ha a che spartire con il classico caffè italico. Un prodotto probabilmente indirizzato a un segmento di mercato differente, più giovane e internazionale, e soprattutto meno attaccato a riti consolidati.
Una scommessa che in Australia, con la sua grande tradizione di ottimo caffè dovuta alla massiccia immigrazione di italiani e greci negli anni ’50, è stata invece amaramente persa, facendo registrare perdite milionarie per il colosso americano.
Uno scenario che potrebbe ripetersi anche in Italia; ecco perché è importante che palme, banani, paesaggi esotici, e ancor più polemiche e discussioni, attirino curiosi e visitatori, che non mancheranno –dopo aver ammirato il nuovo look di Piazza Duomo– di infilarsi a commentare il tutto nella prima caffetteria dei paraggi.
Vale a dire Starbucks.
[Crediti | Link: Dissapore, immagini: Repubblica Milano]