Che tra Starbucks e i sindacati non scorra buon sangue non è una novità: pensiamo a quanto rivelato un paio di settimane fa dal The Guardian – e cioè che, nel corso degli ultimi mesi, il colosso del caffè avrebbe licenziato più di 20 leader sindacali negli Stati Uniti d’America -, o ai commenti degli stessi sindacalisti nei confronti di Howard Schultz, CEO dell’azienda in questione. Più recentemente, Starbucks ha preso a chiudere alcuni dei suoi punti vendita che, guarda caso, stavano entrando a far parte di un sindacato: una decisione interpretabile come rappresaglia.
Workers United, il sindacato che sostiene gli sforzi in questo ambito dei dipendenti di Starbucks, ha infatti dichiarato al National Labor Relations Board che il colosso del caffè, nel chiudere il suo punto vendita a Ithaca (New York), andrebbe di fatto a violare il diritto federale del lavoro; e non ha esitato a definire la decisione una “rappresaglia” evidenziando come i dipendenti della sede avessero votato a favore della sindacalizzazione lo scorso aprile. Stando a quanto dichiarato dal sindacato, i lavoratori avevano iniziato a scioperare il 16 aprile a causa delle condizioni di lavoro “non sicure”, scegliendo addirittura di allontanarsi dal punto vendita in seguito a un’emergenza rifiuti causata dal sifone traboccante. Proprio questo episodio (il malfunzionamento del sifone) è stato poi indicato da Starbucks come motivo di chiusura della sede, ma il comitato sindacale non abbocca: “Si tratta di un chiaro tentativo di spaventare i lavoratori in tutto il Paese vendicandosi contro i propri dipendenti”, ha affermato in una nota.
Starbucks, dal canto suo, si è difeso sostenendo che la chiusura e la riapertura delle propri sedi è “parte normale” delle sue operazioni. “l nostro obiettivo è garantire che ogni partner sia supportato nella sua situazione individuale e abbiamo opportunità immediate disponibili sul mercato” ha affermato un portavoce dell’azienda rispondendo a una mail della CNBC.