E’ due settimane che fremo: domani vado con amici in una trattoria di provincia a sfondarmi di asparagi. Fanno tipo quindici portate di soli asparagi: con la maionese, con il parmigiano, sotto le uova, sopra le uova, nel risotto, nei tajarin, con la fonduta, in flan, persino nel dolce li mettono.
Le successive minzioni saranno verdi e puzzeranno di uovo marcio, ma è un piccolo dazio da pagare per una grande felicità.
Perché vi racconto questo? Perché tra i tanti crismi del mangiare contemporaneo, ce n’è uno condiviso praticamente da tutti, Slow Food e al critico Edoardo Raspelli, destra e sinistra, onnivori e vegani: la stagionalità.
La stagionalità è tanta robba.
Non c’è niente di meglio di una pesca d’estate, di una fragola in primavera, di un’acciuga in autunno, e non c’è niente di peggio di un’anguria a gennaio o del pesce ad agosto (spiace, sembra assurdo, la natura è fatta male, ma è così).
Grazie a dio ci sono alimenti che ci mantengono allenati alla stagionalità: i miei amati asparagi, per dire, naturalmente i porcini, le ciliegie, i fichi, i piselli, tutte cose ancora governate, almeno parzialmente, dall’orbita terrestre e che siamo abituati ad aspettare, non come, chessò, mele o pomodori che ormai compriamo tutto l’anno (a costo di pagarli cari e della totale mancanza di sapore).
Amo la stagionalità perché la materia prima è al suo massimo di qualità e al suo minimo di prezzo (pazzi quelli che pagano le alici brutte quindici euro al chilo quando, aspettando, potrebbero averle splendide a tre).
Ma amo la stagionalità anche perché mi piace aspettare.
Tutti lo sanno, la legge del desiderio è: si desidera solo ciò che non si ha.
Me lo dimostrano quotidianamente i miei due figli, che indipendentemente da ciò che tengono in mano, vogliono sempre quel che ha l’altro.
Mi piace aspettare i funghi. Mi piace aspettare le acciughe. Mi piace aspettare i tartufi.
Non è l’attesa del piacere, essa stessa, piacere?
Non è l’attesa dei fichi, essa stessa, fichissima?