C’è crisi, e in questo non c’è nulla di nuovo. È una crisi su più strati, un po’ come la raccomandazione per l’abbigliamento durante le gite alle elementari, e anche questo non è nulla di nuovo: sanitaria, economica e sociale. Che c’è di nuovo, allora? Beh, ve lo diciamo noi: il confronto con la concretezza dei numeri. Eh sì, perché i dati, quelli nudi e crudi, lasciano poco spazio ai “se” e ai “ma”: si presentano belli tosti, fieri della loro esattezza, e se il loro significato è preoccupante poco importa. Ci riferiamo a quanto emerso da due indagini redatte dall’Ufficio Studi Coop, entrambe condotte a dicembre 2022, che sottolineano come poco meno di un quinto degli italiani (il 18%, a essere precisi; equivalenti a circa 9 milioni di persone) dichiara di essersi trovati faccia a faccia con un permanente disagio alimentare nel corso del 2022.
Il binomio cibo e salute
Anche il resto dei dati non è particolarmente incoraggiante: un cittadino italiano su quattro teme che il 2023 porterà la “vera povertà” (intesa come non avere soldi per cibo, trasporto, abiti e scuola) e addirittura il 66% del campione complessivo ha confessato che non saprebbe come fare fronte a una spesa improvvisa e non derogabile di (almeno) 850 euro.
Un quadro piuttosto tragico, quello trattato dalle indagini in questione, dal quale emerge tuttavia una spiccata linea di priorità: gli italiani rinunciano (seppur a malincuore, beninteso) all’outdoor, ai viaggi e alla convivialità pur di tutelare il cibo e la salute. Anche questi settori, tuttavia, sono popolati da rinunce: “Per far fronte all’aumento dei prezzi l’80% degli italiani cambierà anche le proprie abitudini alimentari orientandosi verso diete più salutari e meatless”. Si passa alla dieta dello studente fuori sede, in altre parole: la carne è un esclusiva del ritorno a casa dai genitori.
Come si sta, invece, dalla cosiddetta altra parte del bancone? Il 40% dei manager Food & Beverage intervistati prevedono che il 2023 sarà un anno “all’insegna della sobrietà ed essenzialità alimentare”, macchiato da un’alta inflazione dei beni alimentari lavorati (su una media del +6,7%) che andrà senza ombra di dubbio a incidere sui volumi acquistati nel contesto della grande distribuzione. Contesto che, naturalmente, subirà le conseguenze di tale contrazione dei consumi con un peggioramento della redditività (lo teme il 66% dei manager), un successivo calo degli investimenti (37%) e ricadute anche sul fronte occupazionale (27%).
In altre parole, siamo di fronte al proverbiale gatto che si morde la coda: i cittadini hanno meno soldi, si spaventano, spendono meno, le aziende si impoveriscono e perdono lavoratori che a loro volta spenderanno meno. Quali possono essere le soluzioni? I manager affermano di voler puntare su “innovazione e ristrutturazione“, parole un po’ tappabuchi e un po’ panacea che, diciamoci la verità, peccano di concretezza: la maggior parte (38%) punterà sulla riorganizzazione dei processi aziendali, sia nel prodotto e nel servizio (32%) fino ai canali e alla rete di vendita (26%).