Nel giro di 25 anni lo smart working ci renderà brutti, con le occhiaie, ingobbiti e obesi. Non che ci stupisca più di tanto la conclusione a cui è arrivato lo studio promosso da DirectlyApply che ci ha presentato Susan, il prototipo di una smart worker che porta sul suo corpo gli effetti di un quarto di secolo di lavoro al pc da casa.
Non c’era bisogno di scomodare la scienza per immaginare il nostro futuro, diciamo noi. Bastava bussare a casa nostra (una casa qualsiasi) e vedere come ci hanno ridotto due mesi di lockdown e lavoro in remoto. È bastato qualche giorno perché pigiama, capelli unti, ascelle pezzate e sguardo vitreo diventassero parte della nostra routine. A salvarci dall’imbruttimento totale, per fortuna, c’erano le video call che una volta ogni tanto ci imponevano di renderci presentabili al mondo esterno, almeno dalla vita in su.
Ma evidentemente questo non è bastato a salvare Susan, rappresentazione computerizzata di una persona che ha lavorato 25 anni in smartworking. Occhi secchi e arrossati, obesità, calvizie, rughe, macchie sul volto, mani irritate, postura ingobbita e spalle ricurve sono solo alcune delle cose di cui soffre Susan, senza contare – probabilmente – la dipendenza da Social Network e i dolori alle articolazioni delle mani per il troppo battere sulla tastiera.
Insomma, un impietoso sguardo sul nostro possibile futuro, se non ci mettiamo in riga: perché ammettetelo, Susan rischiate di essere proprio voi, a partire dai pantaloni del pigiama con i cuoricini portati sotto la pancetta.
[Fonte: Corriere della Sera]