Le aziende per denominare i prodotti a base vegetale continuano a impiegare parole che accompagnano da sempre la carne: salame, burger, bistecca. E così wurstel o bresalola si ritrovano improvvisamente imparentati con tofu, soia o seitan.
L’industria della carne si lamenta: questi prodotti ingannano i consumatori e rubano fette di mercato a quelli originali.
Ve lo abbiamo già detto, il ministro delle Politiche Agricole tedesco sta per presentare una proposta di legge che proibisca alle aziende l’impiego della parola “carne” nella confezione qualora il prodotto sia vegetale.
Adesso alla Germania fanno eco gli Stati Uniti.
Un disegno di legge già presentato al Congresso, si propone di mettere fine all’abuso della parola “latte” nei prodotti di origine vegetale. Il progetto ha un nome eloquente: Dairy Pride Act, un atto che intende restituire ai produttori di latte e alle aziende specializzate in prodotti lattiero-caseari ciò che a loro appartiene.
Nonostante i prezzi sostenuti, negli Stati Uniti il mercato del latte alternativo è in crescita costante, tendenza riscontrata anche in Italia, dove il latte di soia (che abbiamo sperimentato in un’apposita Prova d’assaggio) copre circa il 50% dell’offerta, tallonato a breve distanza dal latte di riso. Gli altri tipi, cocco, avena, mandorla sono per ora meno diffusi.
Un’occhiata all’etichetta ci ha permesso di scoprire che la lista degli ingredienti differisce parecchio a seconda dei tipi di bevanda, ce ne sono che contengono semplice acqua, oltre all’ingrediente principale, mentre in altri casi la lista si allunga con stabilizzanti, aromi vari, oli, vitamine, emulsionanti, calcio, zucchero e sale.
Uno studio molto approfondito pubblicato sulla rivista scientifica Plant Food Human Nutrition ha chiarito che le bevande di origine vegetale, spesso dipinte come “salutari”, contengono in realtà meno proteine e più zuccheri rispetto a quelle di origine animale.
Promotrice del disegno di legge è Tammy Baldwin, senatrice in carica del Wisconsin, secondo cui il latte alternativo ha invaso gli scaffali dei supermercati approfittando del buon nome e della buona reputazione di quello tradizionale.
La personale crociata della senatrice mira a modificare la definizione di “latte”, che può essere uno solo, cioè “la secrezione lattea, priva di colostro, ottenuta dalla mungitura di una o più animali in buono stato di salute”. E non il prodotto dell’estrazione e filtrazione dei succhi vegetali –con successiva eventuale dolcificazione– che poi finisce nel tetrapack adatto alla lunga conservazione.
Il Dairy Pride Act si basa dunque sul principio che accostare le parole soia o tofu a latte e formaggio sia ingannevole per i consumatori.
I produttori delle bevande vegetali si difendono: non serve a niente vietare le parole riconducibili a latte e formaggi dalle etichette. Secondo loro, i consumatori sanno bene cosa prendere, e non c’è rischio che sbaglino scegliendo una bottiglia di latte d’avena, anziché una di latte vaccino.
Lo stesso argomento usato per discolparsi dalle aziende specializzate in salami e wurstel per vegani.
[Crediti | Link: Grub Street, Dissapore]