Lunedì vengo invitato a cena in uno dei miei localini giapponesi pop preferiti, Japs!, a Torino. Japs in realtà è una sorta di mini-catena, ma piuttosto atipica: hanno una manciata di negozi e ognuno ha un’identità definita, diversa dagli altri.
Quello in cui mi danno convegno è un Izakaya, un bar/pub, un posto dove si beve e si mangiano piatti semplici.
Se mi hanno convocato è perché questa sera ci faranno degustare alcuni sake e per ognuno proporranno un pairing con i piatti della casa.
Il sake è un mondo che mi è quasi totalmente sconosciuto: faccio parte di quella schiera che per decenni ne ha bevuto uno shottino caldo a fine pasto dopo un as much as you want di sushi.
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Negli ultimi anni ho preso un poco più confidenza, ma niente rispetto al vasto mondo della bevanda ottenuta da acqua, riso e spore koji che ci raccontano per sommi capi durante la cena: è un po’ come in una sera spiegare il vino, un’impresa ardua.
Dunque Lorenzo Ferraboschi, fondatore dell’importatore Sake Company e responsabile italiano della Sake Sommelier Association, ci fa assaggiare un yawaraka type-1, un nanago, due karakuchi accostati a quattro piatti, dandoci alcuni semplici consigli: la temperatura del sake deve essere la medesima del piatto che accompagna, caldo con caldo, freddo con freddo; il sake va messo in bocca assieme, non dopo, al cibo.
Ma soprattutto dice una cosa che mi destabilizza: da ottobre l’Italia ha superato la Gran Bretagna ed è il più grande importatore di sake d’Europa.
Cosa? Ma davvero? Siamo i più grandi bevitori di sake d’Europa?
Giuro che non l’avrei mai sospettato. La cosa mi ha fatto d’un tratto sentire il difetto: vuoi dire che sia rimasto uno dei pochi che ancora non capisce una mazza di sake?
Dunque ai buoni propositi per il 2019 ne aggiungo uno: conoscere meglio il sake.
ePer una volta che l’Italia è leader in Europa in qualcosa, voglio fare la mia parte.