Una domanda assilla tutta la categoria dei frequentatori di ristoranti: è finita l’era dei cuochi rock and roll?
Per cuochi R’n’R intendo quelle splendide e maledette generazioni di chef che ne hanno fatto di tutti i colori, partendo dal sesso, passando per la droga e finendo, appunto, ascoltando il rock (o magari il punk).
[Va bene, chef is the new rockstar, ma vi siete chiesti perché?]
[Perché non riusciamo a superare il suicidio di Anthony Bourdain]
[Tornare da Marco Pierre White oggi che è solo un marchio quotabile in borsa]
Ognuno ha i propri vizi, ma i cuochi di più: più bere, più fumare, più donne, più sostanze, più fare l’alba, più finire nei fossi, più poker, più andare a fare colazione a Nizza e tornare a Bologna senza sapere come sia successo.
Perché i cuochi d’un tempo erano così?
Perché era gente che si spaccava il c**o tutto il giorno e la sera si trovava in botta d’adrenalina, le tasche con i rotoli di centomila e alle tre di notte non è che puoi andare al cinema a vedere Truffaut.
Poi i tempi sono cambiati. È cambiata la società, sono cambiati i ritmi di lavoro, sono cambiati i punti di riferimento, sono cambiati i costumi. Marco Pierre White, che è stato il più cazzuto di tutti, adesso fa la pubblicità del dado sorridente bonario a una casalinga.
Non è più tempo del cuoco-rockstar, è tempo del cuoco-manager che non solo cucina ma sa fare impresa, ha l’autocontrollo di un monaco zen e lo charme di un amministratore delegato.
Un ragazzo dell’alberghiero che guarda la televisione ambisce a diventare come il Cracco televisivo: idee chiare, successo, affidabilità, contratti con gli sponsor. Negli anni Ottanta invece magari un giovane voleva fare il cuoco per frequentare il mondo del lusso, avere soldi in tasca, viaggiare, potersi comprare una cabrio, andare in disco con le tipe e fare mattina.
Probabilmente il settore ci ha guadagnato. Ma a un prezzo: sacrificare quelli che trovano il proprio genio nella sregolatezza.
Sono pochi, pochissimi, per carità. Ma rinunciarvi è un delitto.