Lunedì è il primo maggio, festa del lavoro e molti di noi la onoreranno in famiglia, al ristorante, in trattoria, sui prati.
C’è però una categoria che affronterà la questione omeopaticamente: festeggerà il lavoro lavorando.
E’ la gente del cibo. I cassieri del supermercato e i rider, i pasticceri e gli osti, i camerieri e i lavapiatti, gli chef e i baristi, i pizzaioli e i sommelier. Così come i ginecologi lavorano dove gli altri si divertono, la gente del cibo lavora quando gli altri si divertono.
La buona notizia è che quello del cosiddetto food è un settore in cui il termine “lavoro” non suona come “unicorno”: come una creatura di pura fantasia.
Nel food si lavora. Si lavora eccome. C’è offerta a ogni angolo. Vuoi lavare i piatti? Vieni: a Londra a Milano a Dubai a New York. Vuoi friggere? Corri: a Tokyo a Fregene a Parigi a Port Louis. Vuoi servire ai tavoli: vai dove ti pare!
La cattiva notizia è che molto spesso questo lavoro è di qualità molto bassa: tante ore, tanta fatica, pochi soldi, poche tutele (però è una delle attività a maggiore mobilità verticale: si può passare da lavapiatti a chef in pochi anni, se si hanno ambizione, volontà e talento).
Cosa voglio dire con questo?
Che nessuno più della gente del cibo ha diritto a rivendicare una qualità del lavoro migliore. Non si può certo tacciarla di chiedere senza dare, di volere di più avendo già ottenuto tanto: quelli del cibo si fanno il mazzo, non desiderano lavorare di meno, ma meglio. E se lo meritano.
Compagni dai banchi e dalle cucine, prendete la tocque e portate il coltello: non so quanti di noi faranno le barricate per difendere i piloti Alitalia; per voi di certo saremo in prima fila.