Il paragone immediato e in un certo senso obbligato è naturalmente quello con le sigarette. D’altro canto, ci sentiamo di dare oramai come conoscenza ampiamente condivisa che il cosiddetto cibo processato faccia male alla salute – una intuizione che potrebbe poggiare sul banale sentito dire, sul più intimo intuito, o ancora sulle solide e molteplici basi degli studi scientifici che nel corso degli ultimi anni hanno preso in esame questi elementi. Eppure quel vassoio di patatine fritte, quella ciambella che pare brillare di luce propria, quella bibita dolce e rinfrescante hanno la brutta tendenza di affascinare il palato e spingerci a ignorare le molteplici avvertenze che ci ronzano in testa. Dipendenza di massa, secondo la comunità scientifica – un problema che necessita di attenzione.
Dipendenza dal cibo processato: un’occhiata ai numeri
Dati alla mano, stando a quanto riportato dal The Guardian, si stima che su scala globale un adulto su sette e un bambino su otto siano dipendenti dal cibo processato, una tipologia di alimenti il cui consumo è tristemente noto per essere legato all’aumento del rischio di cancro, aumento di peso, malattie cardiache e, secondo alcuni studi più recenti, perfino al rischio di depressione e altri problemi di matrice mentale.
A oggi, il cibo processato costituisce più della metà della dieta media nel Regno Unito e negli Stati Uniti; complice la crisi del costo della vita, che ha fondamentalmente “bloccato” alcune famiglie dall’acquistare alimenti più salutari, e una mancanza generale di educazione alla corretta alimentazione. Secondo la lettura della comunità scientifica, il modo in cui alcune persone si approcciano a tagli alimenti potrebbe “soddisfare i criteri per la diagnosi del disturbo da uso di sostanze”.
Criteri che, in ordine sparso, spaziano dal desiderio intenso ai sintomi da astinenza, passando per un minore controllo sull’assunzione e uso continuato nonostante conseguenze come obesità, disturbo da alimentazione incontrollata, cattiva salute fisica e mentale e minore qualità della vita. La proposta della comunità scientifica per fare argine alla dipendenza è quella di apporre ai prodotti in questione etichette che vadano a informare i consumatori della loro capacità di creare dipendenza – un po’ come per le sigarette, per l’appunto.
“Riconoscendo che alcuni tipi di alimenti trasformati hanno le proprietà di sostanze che creano dipendenza, potremmo essere in grado di contribuire a migliorare la salute globale” ha commentato a tal proposito Ashley Gearhardt, professoressa di psicologia presso l’Università del Michigan negli Stati Uniti, aggiungendo che l’introduzione di misure del genere potrebbe innescare nuove ricerche nel campo del cibo processato.
“I carboidrati o i grassi raffinati evocano livelli di dopamina extracellulare nello striato cerebrale simili a quelli osservati con sostanze che creano dipendenza, come la nicotina e l’alcol” hanno aggiunto gli scienziati. “Sulla base di questi paralleli comportamentali e biologici, gli alimenti che forniscono alti livelli di carboidrati raffinati o grassi aggiunti sono valutabili per essere considerati come sostanza che crea dipendenza”.