L’abilità dei pizzaiuoli napoletani (scusate, ma la “U” è di rigore), è al rush finale per il riconoscimento Unesco, scrive oggi Repubblica, “e se il diavolo non ci mette la coda, nelle prossime ore potrebbe essere proclamata patrimonio dell’umanità”.
La candidatura si discute a Seul, sottoposta al vaglio dei rappresentanti di 24 Paesi, chiamati a decidere entro il 9 dicembre se il piatto nazionale è all’altezza dell’ambito titolo.
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Per vincere la battaglia, condotta all’ultimo voto sul filo della diplomazia internazionale, l’Italia ha schierato ben due ambasciatori, quello in Corea e quello all’Unesco.
Del resto, la pizza sembra avere tutte le carte in regola per riuscire nell’impresa: la prima vera “pizzeria” è nata nel 1738 a Napoli, e nel 1807, sempre nel capoluogo partenopeo, se ne contavano già 68.
Al tempo venivano chiamate “botteghe del pizzaiolo”, perché non era importante solo il cibo consumato, ma la figura stessa dei “maestri della margherita” che hanno costruito con pazienza e disciplina le fortune di questo comfort food.
Oggi, in Italia, l’affare-pizza vale 12 miliardi di euro, mentre nel mondo la cifra sale a ben 60 miliardi. Numeri che dicono molto sui problemi della nostra economia, visto che, nonostante la pizza sia nata in Italia, i maggiori profitti li fanno gli americani, arrivando addirittura a imporre da noi le loro catene, vedi il caso Domino’s.
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E se gli italiani consumano ogni giorno 5 milioni di pizze, per un totale di 7,5 chili annui a testa, gli USA rispondono con 13 chili all’anno pro-capite, mentre in terza posizione c’è la Francia con 4,7 chili annui a testa.
Un vero tesoro planetario, ecocompatibile, capace di soddisfare le esigenze del gusto e anche quelle del benessere, specie nelle versioni più moderne, a costi accessibili e senza pesare troppo sulle risorse del pianeta.
Se non è un patrimonio universale questo.