Dici pizza ed è subito Italia, sia nell’immaginario collettivo dei turisti stranieri sia in quello degli italiani che – ça va sans dire – la utilizzano per le cene in famiglia e con gli amici e, soprattutto, come “espediente” quando c’è da spiegare in che cosa veramente eccelle il Paese. Secondo l’ultima ricerca sul settore (2018) della Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e Media Impresa (Cna) su dati di Infocamere e Infoimprese, le aziende che vendono pizza sono quasi 127mila di cui 76.357 sono esercizi di ristorazione, 40mila ristoranti-pizzerie e circa 36.300 bar-pizzerie.
La produzione giornaliera ammonta a 8 milioni di pizze e il fatturato annuo è di 15 miliardi di euro per un business che oltrepassa i 30 miliardi. Interessanti i dati relativi all’occupazione e che riguardano 105mila impiegati nell’attività (il doppio nel fine settimana). Siamo di fronte a un contesto multiculturale, perché di questi, 70 mila sono italiani, 20 mila egiziani, 10 mila marocchini e 5 mila dell’Est Europa.
Domina la pizza tradizionale su quella gourmet e il prezzo non supera, in un caso su due, i 7 euro, ma c’è una fascia di mercato (4%) che va oltre i 10 euro per impasti speciali e ingredienti ricercati. A Milano si mangia la pizza più cara, a Reggio Calabria la più economica. Sorprendono i dati della distribuzione territoriale, poiché per “Tuttopizza” è la Valle D’Aosta al primo posto per aumento del numero delle pizzerie.
Se volgiamo lo sguardo al mondo, è il Brasile il Paese in cui si preferisce di più la pizza seguito da Svezia e Spagna. Ma sebbene i numeri siano crescenti e il settore non accenni a crisi, è necessario, invece, allarmarsi per alcuni prodotti che non sono garanzia per i consumatori e i quali con l’Italia c’entrano ben poco. Stiamo parlando di: mozzarella lituana, concentrato di pomodoro cinese, olio tunisino, grano ucraino, basilico indiano, mozzarella sudafricana.