Sì, l’ho visto con i miei occhi. Sul serio. Potrei giurarlo su una pila di testi sacri (li può scegliere Salvini).
L’altro giorno a un tavolo accanto al mio un signore ha preso due enormi spicchi di limone e li ha selvaggiamente spremuti sul fritto di pesce. Aveva mani che parevano tenaglie e i limoni erano grossi come cedri: un’immagine quasi epica, tipo un Ciclope che stritola una pecora.
Devo ammetterlo: da ragazzo il limone sul pesce m’è capitato di metterlo.
Erano gli anni Ottanta, che ci volete fare: si mangiavano le penne con uova di lompo e panna e ci si ubriacava di vodka al melone, il problema non era certo come aspergevi le triglie.
Ma adesso no, adesso proprio non lo farei mai.
Perché non ha senso –è un’usanza, garantiscono gli esperti, che proviene da quando la conservazione del pescato era incerta–, perché copre i sapori delicati, perché cuoce le carni, perché ammoscia il croccante.
E soprattutto perché ho sposato una ligure che tutte le volte che vede qualcuno farlo cita il famoso adagio: “chi sul pesce mette il limone o è di Cuneo o è un belinone.”
Nel 2018, posso garantirlo, il limone sul pesce non lo mettono più nemmeno a Cuneo. Gli unici irriducibili sono magari i ghiottoni d’una certa età che hanno sempre fatto così e non riescono a perdere l’abitudine.
Se poi del citrico sulla ricciola proprio non potete fare a meno, allora esagerate e datevi al ceviche peruviano. Se acidità volete, acidità sia. Senza se, e senza ma.
Del resto, immagino che anche la leche de tigre sia nata soprattutto per le proprie proprietà antibatteriche. E se il ceviche in Italia piace ai gourmet e a nessun altro ci sarà un perché.