Che la pesca intensiva sia un rischio concreto per il benessere e l’equilibrio dei mari è ormai un dato appurato – e il timore che queste operazioni bulimiche continuino a imperversare per accomodare le necessità di una popolazione mondiale in costante crescita è sempre presente. Ciononostante, nel più recente rapporto sul settore redatto da Fao e ONU e presentato negli scorsi giorni in quel da Lisbona trapela un’aria di inconfondibile ottimismo, che di fatto lascia ben sperare nel futuro.
Se infatti è innegabile che il prelievo “intensivo e selvaggio da mari e oceani” abbia stravolto per sempre la filiera della pesca a livello globale, “gli stock ittici più grandi sono gestiti meglio e la loro sostenibilità è migliorata nell’ultimo decennio”. Per quanto riguarda quelli di dimensioni più modeste, e pertanto anche più isolati e privi dei più moderni sistemi di gestione, pare che vadano a deteriorarsi nel tempo: l’obiettivo auspicato da Manuel Barange, Direttore della Divisione Pesca e Acquacoltura della Fao, è quello di “avere il 100 per cento delle riserve ittiche sotto una gestione efficiente”; un traguardo che tuttavia non è affatto scontato – specialmente nei Paesi a reddito basso.
Rimane importante, infatti, prendere in piena considerazione le componenti sociali, economiche e culturali delle singole comunità di pescatori e la piccola scala, condividendo in maniera equa i benefici che ne derivano: “La crescita della pesca e dell’acquacoltura è fondamentale per porre fine alla fame e alla malnutrizione nel mondo” ha commentato a tal proposito il portavoce dell’ONU “ma è necessaria una maggiore regolamentazione e trasformazione del settore per evitare l’esaurimento delle risorse negli oceani”.