La pesca a strascico – spinosissima architrave che, come si potrebbe intuire dalle sempre numerose e accese proteste dei pescatori quando si parla dell’introduzione di un divieto, regge la bilancia commerciale della flotta nostrana. Una intuizione che assume ancora più i connotati della realtà quando consideriamo che appena una manciata di mesi fa, in occasione di un incontro del Consiglio Agricoltura e Pesca per votare la messa al bando di questa particolare pratica, l’Italia è stato l’unico Paese a votare contro. Un piccolo spoiler: abbiamo perso.
Il “no” dello Stivale, dicevamo, è stato solidamente impostato sulla difesa dei posti di lavoro. Stando ai numeri lasciati trapelare dagli enti del settore (che, beninteso, avranno legittimamente intenzione di fare i propri interessi) il divieto alla pesca a strascico avrebbe messo a repentaglio l’occupazione di circa 7mila persone e gli introiti del 20% della flotta peschereccia italiana.
La risposta alla pesca a strascico? Il cemento
Il taglio, dando un’occhiata ai dati appena riportati, è tragico; ma allo stesso tempo potrebbe rappresentare un fertile terreno per una riflessione: per quale motivo un settore indubbiamente importante come quello della pesca si affida così tanto a una pratica notoriamente insostenibile e dannosa?
Per chi non lo sapesse, la pesca a strascico è di fatto una pratica che, come d’altronde suggerisce il nome, consiste nel trascinare sul fondo marino una grande rete in modo tale da assicurarsi il “bottino” più grande possibile con un colpo solo. La comodità, tuttavia, ha un prezzo: le reti finiscono per “grattare” il fondale strappando in maniera indistinta anche alghe, specie non commerciabili e animali ancora troppo piccoli per essere pescati. Il risultato? Danni e cicatrici che, nel tempo, possono innescare la desertificazione dei fondali.
Al di là del sopracitato divieto europeo continua a esistere una importante frangia di pesca a strascico illecita che rappresenta un serio pericolo per l’ambiente marino. Tra le risposte più gettonate dalle autorità competenti ci sono i cosiddetti dissuasori, la cui più recente installazione è avvenuto al largo della costa di Montegiordano, in provincia di Cosenza.
Come riportano i colleghi dell’ANSA, si tratta di una “settantina di dissuasori in cemento” di “2,40 di larghezza per 2,50 di altezza ognuno2,40 di larghezza per 2,50 di altezza ognuno”. I blocchi, dal peso di 120 quintali l’uno, sono costellati di fori che dovrebbero permettere alle specie marine di trovare rifugio all’interno, migliorando la loro capacità di produzione, e sono stati progettati con l’intenzione di formare una barriera per impedire ai pescherecci di calare le reti.
L’installazione sarà seguita da un lungo periodo di monitoraggio. “Già a maggio” spiega a tal proposito Emilio Mormandi, referente per Mediterraneo Interiore assieme alla biologa Felicetta Mazzei “verranno effettuati dei sopralluoghi per osservare questa area di riproduzione anche con l’intento di realizzare un allevamento di spugne marine con la collaborazione della professoressa Katia Longo dell’Università di Bari”. Nel frattempo, il dubbio rimane: per fermare la pesca a strascico l’unica arma è davvero riempire il mare di cemento?