Che cosa accomuna il sornione Oscar Farinetti, patron di Eataly, e Donald Trump, l’intransigente neo-eletto Presidente americano?
Risposta: gli immigrati. O meglio, l’utilizzo, nelle loro imprese, di personale straniero.
Peccato che, se il risultato è lo stesso, diametralmente diverso sia l’approccio: fiero e urlato ai quattro venti è l’impiego di personale proveniente dall’estero da parte di Farinetti; dimesso e sottotono è, invece, il ricorso a personale non americano da parte di Trump.
E come potrebbe essere diversamente?
Il neo- presidente americano proviene infatti da una campagna elettorale di 17 mesi in cui il grido “hire american (assumete americano)” è risuonato in tutti gli angoli degli States in cui il tycoon si è recato, e la sua posizione riguardo alla costruzione del fantomatico muro con il Messico, per impedire l’arrivo di migliaia di stranieri dal Centro e dal Sud America, è nota a chiunque.
Ma a dispetto di quanto sbandierato in campagna elettorale, l’azienda vinicola di Trump con sede in Virginia, e gestita dal figlio Eric, si avvale puntualmente sin dal 2014 di lavoratori agricoli stagionali messicani.
E come ogni anno, anche per il 2016 la Trump Winery –che è un’azienda vinicola di tutto rispetto e di dimensioni medio-grandi, producendo circa 40.000 casse di vino ogni anno– ha richiesto l’ausilio di 6 lavoratori agricoli stagionali provenienti dal Messico.
Lo stesso succede per l’esclusivo club privato di Trump di Mar-a-Lago, come riportato dal Palm Beach Post, dove il miliardario americano impiega lavoratori stranieri con mansioni di cuochi o camerieri in quanto “è molto, molto difficile ottenere personale”.
Praticamente, una necessità cui il tycoon americano si piega obtorto collo mantenendo un profilo più che basso.
Completamente opposto, invece, l’atteggiamento dell’Oscar nazionale. E diversi anche i numeri.
E’ di qualche giorno fa l’esternazione di Farinetti, riportata dal quotidiano La Stampa, in cui, ribattendo alla presa di posizione di Beppe Grillo in merito ai rimpatri di immigrati irregolari, controlli e abbandono di Schengen, replicava che “quel razzista di Grillo ha prodotto la sua filippica con toni da legge razziale contro le immigrazioni. Ma io penso agli extracomunitari che sono nel nostro organico. Tra loro ci sono anche 18 rifugiati politici e tutti lavorano con grande impegno. Ho mandato loro un abbraccio».
O meglio, 223 abbracci: tanti sono, infatti, i lavoratori extracomunitari disseminati tra tutti i punti vendita Eataly in giro per l’Italia, tra cui i 18 profughi nominati da Farinetti.
C’è per esempio Alì, arrivato in Italia dalla Libia con un barcone nel 2009 e che oggi lavora a Eataly Torino. E c’è Diop, dal Senegal, assunto come cuoco presso Eataly Bologna.
E tanti altri loro compagni, che tutti assieme contribuiscono al buon andamento di Eataly e quindi dell’economia italiana, così come le migliaia di lavoratori agricoli stranieri, di cui almeno la metà illegali –come stima il Dipartimento americano per le politiche agricole– , contribuiscono alla crescita delle imprese statunitensi, comprese quelle del clan Trump.
Che sì, anche lui ha bisogno di ricorrere a lavoratori stranieri. Proprio quelli che, per suo stesso volere, starebbero dall’altra parte del muro.
[Crediti | Link e immagini: La Stampa, Eater]