L‘olio di palma è un prodotto decisamente controverso, che “giace” su di uno scomodissimo biplanarismo: da un lato abbiamo infatti la sua relativa essenzialità in innumerevoli prodotti alimentari, e dall’altro le aspre critiche fiorite dal sistema mediatico specialmente in tema di salute. Impossibile, poi, trattare di questo argomento senza almeno citare il forte legame che collega la produzione di olio di palma alla deforestazione – una lunga scia di alberi mutilati che ha spinto all’istituzione di una linea produttiva più sostenibile. Come sovente accade in casi come questo, tuttavia, la pratica è decisamente più complicata della teoria: chiaro, un olio di palma “pulito” e amico dell’ambiente fa gola a tutti, ma concretizzarlo comporta piazzare la proverbiale asticella in alto. Anche troppo in alto, secondo una rete di coltivatori che ha di recente dato voce al proprio scetticismo.
Regole severe e un mercato indifferente
Il problema, in realtà, è piuttosto semplice: da un lato abbiamo regole rigide e severe, necessarie soprattutto per l’immissione nel florido mercato europeo, e dall’altro una scarsa solidarietà da parte degli altri attori commerciali coinvolti. “Non credo in questa terminologia di rendere l’olio di palma sostenibile la norma, non lo sarà perché l’asticella è semplicemente molto, molto alta” ha commentato a tal proposito Datuk Carl Bek-Nielsen, co-presidente del consiglio di amministrazione della Tavola rotonda sull’olio di palma sostenibile (Rspo) e al contempo uno dei principali produttori della Malesia.
Insomma, le buone intenzioni ci sono – ma ciò che la fa da padrone, alla fine della fiera, è la dura legge del denaro; e con un mercato mondiale che rimane stolidamente indifferente agli obiettivi di sostenibilità i produttori più “verdi” rischiano di rimanere fuori dai giochi. “Non è possibile rendere l’olio di palma sostenibile la norma” ha rincarato la dose Bek-Nielsen “per il semplice motivo che il traguardo Rspo è già cresciuto così tanto che il 70% dei produttori mondiali di palma non sarà mai in grado di soddisfare i suoi standard molto, molto severi”.
Le adesioni alla sopracitata Tavola rotonda, che mira a certificare la produzione declinandola attraverso standard di alta qualità e sostenibilità ambientale, sono finora spiaggiate sul 20% dei produttori totali. L’esca, se così vogliamo definirla, per attirare nuovi coltivatori è la volontà di commerciare con i mercati occidentali dove la consapevolezza ambientale è maggiormente sviluppata.
“Abbiamo prodotto e contribuito a trasformare uno dei prodotti agricoli più grandi al mondo, di cui il 20% è ora certificato come sostenibile” ha spiegato a tal proposito Bek-Nielsen, accusando allo stesso tempo di “ipocrisia” tutti coloro che criticano l’olio di palma senza tuttavia impegnarsi ad acquistare quello sostenibile. Al momento, l’adozione della certificazione Cspo è ferma al 64%. “Come può essere che l’assorbimento di tutto quel prodotto sia così basso?”. La soluzione, secondo Bek-Nielsen, è quella di aumentare il ruolo della responsabilità condivisa da tutti gli anelli della filiera: commercianti, trasformatori e aziende che impiegano il prodotto in questione nei propri prodotti alimentari.