Lavorare nella cucina del ristorante che a più riprese è stato premiato come il migliore al mondo è una faccenda seria, non c’è ombra di dubbio – talmente seria che è vietato ridere durante l’orario di lavoro, a quanto pare. La “soffiata” arriva da una ex stagista, Namrata Hedge, che all’indomani dello storico annuncio di chef René Redzepi, secondo il quale il Noma così come lo conosciamo è ormai prossimo alla sua fine, ha imbracciato coraggio e microfono e rilasciato una breve intervista ai Times in cui racconta della sua pittoresca esperienza nel celebre locale danese, raccontando del suo stipendio nullo e di una cultura lavorativa apparentemente problematica.
Guai a raccontare una barzelletta
La notizia sulla bocca di tutti, che ha squarciato la bolla dei gastrofighetti e ha raggiunto anche l’informazione non strettamente legata al settore, è quella a cui abbiamo accennato qualche riga fa – l’avventura del Noma così come abbiamo imparato a intenderlo è praticamente finita. Uno shock culturale prima ancora che mediatico: una bandiera, un’istituzione, un movimento che brucia.
Ne abbiamo già parlato ampiamente negli spazi dedicati alla notizia, ma la pietra dello scandalo, per riassumere il tutto, è relativamente semplice – la formula era diventata insostenibile. René Redzepi ne ha parlato nel corso di un’intervista rilasciata al New York Times che, in un certo senso, legge un po’ come una confessione: il Noma, in altre parole, si è arreso alla dura legge del numero.
La testimonianza della sopracitata stagista è un’opportunità per buttare un’occhio dall’altra parte del bancone e andare alla ricerca di crepe già visibili e prontamente ignorate: Namrata Hedge ha lavorato al ristorante danese nel 2017 per tre mesi, durante i quali non ha ricevuto stipendio e ha dovuto sottostare a una serie di regole così severe che Giudici di Masterchef levatevi proprio. I suoi manager, ad esempio, le avevano proibito di fare rumore durante l’orario di lavoro, risate naturalmente comprese.
Ma quali erano i suoi compiti? Beh, Hedge ha raccontato di aver passato la maggior parte del suo tempo ad assemblare degli scarafaggi di “fruit leather”, o pelle di frutta – un processo che la cuoca descrive come lasciare essiccare delle fette di marmellata per poi assemblarle. “Pensavo che uno stage riguardasse il mio apprendimento” ha commentato a tal proposito Hedge. “Non credo che quel tipo di ambiente di lavoro tossico sia necessario”.
Il racconto della ormai ex stagista non ha naturalmente trovato conferme tra i portavoce del Noma, che hanno dichiarato come la storia non rifletta “il nostro posto di lavoro o l’esperienza che desideriamo per i nostri stagisti o per chiunque nel nostro team”.
In altre parole, solo gli scarabei in pelle di frutta rimarranno a conoscenza della verità. Poi chiaro, non sarebbe la prima storia di stipendi fantasma e ambienti lavorativi particolarmente tossici nel fine dining: ricordate di quando un ex dipendente dell’Eleven Madison Park raccontò di essere stato rimproverato perché raccoglieva il ghiaccio in maniera troppo rumorosa?