Non usa tanti mezzi termini, Niko Romito, quando dice la sua sulla 50 Best Restaurant 2019. Lo fa con la pacatezza e i toni educati che lo contraddistinguono, ma la sostanza del suo pensiero è chiara: per essere tenuti in conto dalla classifica dei migliori chef del mondo le pubbliche relazioni sono fondamentali.
Un commento a caldo, da Niko Romito, ce lo aspettavamo: il suo è stato uno dei risultati più deludenti di questa 50 Best Restaurant 2019, con ben quindici posizioni perse rispetto al 2018 che lo portano esattamente una posizione più in giù della Top 50. Dalla 36 alla 51 in un anno, per un 2019 in cui le stelle italiane di certo non hanno brillato nella più importante classifica gastronomica mondiale (il nostro cavallo di punta, Massimo Bottura, come saprete è stato tagliato fuori dalle nuove regole, che hanno relegato tutti gli ex vincitori in una hall of fame fuori classifica). Ed è un peccato che Romito, uno degli chef di punta della cucina nazionale, non abbia raggiunto i risultati sperati.
Ma a chi gli parla di “amarezza” del dopo-classifica (nello specifico al giornalista Marco Bolasco, in una mini intervista su Instagram), Romito risponde così: “No, solo consapevolezza di essere uscito dalla classifica. Forse un po’ me lo aspettavo anche perché quest’anno sono stato tanto in cucina ed è stato un anno meraviglioso, che mi ha impegnato molto“.
Un ragionamento che, a logica, dovrebbe significare che la sua cucina è cresciuta. Allora perché quindici posizioni in meno rispetto all’anno scorso? Romito su questo ha le idee chiare: “Il mio focus dell’anno è stata la concentrazione, lo stare sempre dentro la cucina con la testa sul lavoro, quello che sto facendo in Italia e nel mondo. Quindi un po’ mi sono isolato, sì, ma questo mi ha portato tanta forza. E credo di avere alzato il tiro quanto a precisione, all’identità, al mio racconto personale di interpretazione della cucina italiana. Me lo dicono in tanti. Ma allo stesso tempo, forse, questo isolamento mi ha portato a zero presenze fuori dal ristorante e sugli eventi internazionali, quelli che potessero far conoscere la mia cucina fuori da Casadonna“.
Dunque, incalza l’intervistatore, per una classifica mondiale non bisogna solo cucinare bene ma anche tessere relazioni internazionali più dirette?
“Questo è ovvio“, risponde lo chef, “lo dicono tutti. Ci sono 1000 giurati e io sono a Castel di Sangro, dunque per farmi conoscere da un giurato asiatico o sudamericano è più facile che sia io ad andare da loro che non loro a venire da me. Ma credo che i ruoli si debbano ribaltare: il cuoco deve restare in cucina ed è il giurato che deve andare a trovarlo. Anche perché sicuramente il critico capirà meglio l’Assoluto di cipolle mangiato al Reale rispetto a quello mangiato in Perù“.
E prosegue, con una affondo che sembra toccare l’intero panorama della critica gastronomica: “L’anello debole di tutto questo è che mancano i soldi per fare tutto questo, probabilmente.La 50Best offre una grande visibilità ai cuochi e questo è bellissimo perché questi eventi di incontro sono anche eventi culturali, di scambio di conoscenze. Ma quando mi si dice che “è come la notte degli Oscar” io dico che lo è come tipo di evento, con la differenza che i giurati degli Oscar conoscono tutti i film che giudicano mentre quelli della 50Best giudicano solo quelli che conoscono. Quindi più forza hai nel far conoscere la tua cucina più probabilità avrai di prendere il voto. Potremmo dire che più sei dentro casa, più sei in cucina a lavorare e meno probabilità hai di farti conoscere. È un paradosso, no? Non a caso si verifica sempre che l’anno dopo che la 50Best si presenta in un territorio (l’anno scorso sono stati i Paesi Baschi, n.d.r.) nella classifica siano i cuochi che hanno il ristorante in quel territorio a salire in classifica. Perché hanno avuto molte più probabilità di essere visitati dai giurati accorsi all’evento di presentazione“.