No. Basta. E’ successo di nuovo.
Un paio di giorni fa, durante una discussione tra conoscenti sull’innovazione in cucina, uno se ne salta su grondante sagacia e intona, garrulo: “e poi, come dice Michael Pollan: non mangiare nulla che tua nonna non riconoscerebbe come cibo.”
E tutti a dargli pacche sulle spalle, bene, bravo, bis, grande.
Porca di quella fassona.
I libri di Michael Pollan sono belli e interessanti e complessi e non sono degno di legargli i lacci. Ma gli slogan sono sempre terribilmente rischiosi e i suoi non fanno eccezione.
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Le frasi sentenziose sono ahimè dannatamente moderne –veloci, facili da assimilare, perfette da postare su Facebook dove sono così brevi da rimanere in corpo più grande–, ma cinque volte su dieci dicono cose imprecise e quattro su dieci terribilmente sbagliate.
La frase là dove l’ha scritta Pollan è corredata da un ragionamento, da premesse, contesto, circostanze. Estrapolata così a caso diventa una fesseria sesquipedale, l’affermazione più oscurantista e retriva che si possa immaginare. Una roba così non sarebbe venuta in mente nemmeno ad Adinolfi, nemmeno a Fusaro.
Presa alla lettera la raccomandazione, retrocedendo di nonna in nonna dovremmo mangiare ancora bacche. Sarebbe come dire: non curarti con nessun farmaco che tuo nonno non avrebbe preso; non sentire musica che tuo prozio non avrebbe capito; non andare in luoghi in cui non siano stati i tuoi familiari.
Gli slogan sono efficaci, ma quasi sempre sbagliati. Mi spiace dirvelo, ma è così.
C’era una vecchia canzone di Daniele Silvestri che diceva “lo slogan è fascista di natura.”
Ora, non so se questo sia vero, ma certo la semplificazione del pensiero fa più danni delle tante ricette –alcune squisite, altre terribili– di fronte alle quali mia nonna rimarrebbe interdetta.