E’ qualche giorno che il web s’indigna per un’immagine pubblicitaria: la medesima rappresenta un piatto pronto d’una celebre azienda italiana che negli Stati Uniti commercializza dei fusilli con “salsa all’Alfredo al pollo” e “pronti in un minuto”.
Come molti sanno, la “salsa all’Alfredo” è sostanzialmente burro e Parmigiano, è un condimento che si perde nella notte dei tempi, almeno un paio di ristoratori romani lo rivendicano ma, soprattutto, è tanto celebre all’estero quanto ignorato da noi.
In sostanza: nei ristoranti italiani di New York tutti mangiano l’Alfredo, se la chiedi a Milano arriva lo chef e ti pianta una mannaiata sulla coscia.
I social come previsto s’indignano: ma come, una celebre azienda che dovrebbe esportare l’Italian Style commercializza sta roba, che al limite è Italian Sounding?
Ora, premesso che se l’indignazione su Facebook producesse elettricità l’Italia avrebbe raggiunto l’indipendenza energetica, io non mi indigno ma un po’ mi rattristo.
Capisco le esigenze commerciali d’andare incontro ai gusti delle altre culture, ma per il cibo la penso come per la tv: non è vero che la gente vuole robetta; se le proponi robetta, mangia robetta, se le proponi cose buone, mangia cose buone.
In più, adeguarsi così all’altro mi pare una sconfitta. Diamine, abbiamo la cucina italiana, è forte, è grande, è famosa: per una volta facciamo gli imperialisti, imponiamo cosa piace a noi. Checcacchio.
Voglio dire: i fast food americani è trent’anni che continuano a mettere il cetriolo nell’hamburger anche nei negozi italiani.
Gli italiani sono 60,6 milioni e quelli cui il cetriolo nel panino fa schifo sono: 60,6 milioni. Fa schifo a tutti. Eppure quelli continuano a mettercelo. E noi continuiamo a comprarli.
Questo è saper esercitare imperialismo gastronomico, diamine. Impariamo.