Sono atterrato a Londra tre giorni fa e appena arrivato sono andato a mangiare in un ristorante thailandese. La cameriera si chiamava Angela, gentilissima. Era italiana.
Poi con amici siamo finiti a cenare in un locale molto famoso che fa ceviche. La ragazza che ci ha servito era italiana e si è un po’ dispiaciuta quando l’abbiamo capito dall’accento del suo inglese.
Poi sono andato a prendermi un cocktail in un club molto figo e me l’ha fatto Andrea, ottimo bartender, italiano.
Il giorno dopo a pranzo vuoi non provare un pub: il mio sandwich me l’ha portato Antonella, italiana.
Nel pomeriggio sono finito in un caffè a sorbire un beverone e me lo ha servito Giuseppe, di Andria.
Ora: lo so che gli italiani qui sono ufficialmente circa trecentomila e realmente il doppio, e tanti di questi occupati nella ristorazione, ma fa sempre effetto trovare ragazzi tricolori ovunque, in ogni momento.
Per una manciata di connazionali che hanno fatto il botto –penso ai cuochi Francesco Mazzei e Giorgio Locatelli, al Baronetto che ha conquistato l’Inghilterra, Enrico, fratello di Matteo, restaurant manager di Gordon Ramsay– ci sono badilate di giovani che tentano la fortuna scommettendo gli anni migliori della propria vita.
Sono come le tartarughine appena nate sulla spiaggia che provano ad arrivare al mare: giovani, con un obiettivo chiaro e una probabilità molto bassa di raggiungerlo. Solo una su cento ce la farà: le testuggini verranno pappate dai predatori, tanti di questi ventenni torneranno a casa con le guance arrossate dagli schiaffi inferti dalla Big City life.
Diamine quanto li stimo.
E ogni volta che faccio due chiacchiere con uno di loro –tutti diversi ma tutti con la stessa aria stremata del commuter– vorrei potergli regalare una cosa sopra tutte: qualche ora di sonno extra.
Non c’è sguardo più del loro che invera il verso di Cesare Pavese: lavorare, stanca.