Il primo squillo di tromba, forse più rivolto alla pancia che alle orecchie, risale a poco più di un anno fa: la cucina italiana viene individuata come candidatura ufficiale da parte del governo italiano come Patrimonio culturale e immateriale dell’Unesco. La notizia fu più roboante che sostanziosa, a onore del vero, che d’altro canto all’epoca il rispetto delle circostanze e gli ingranaggi della burocrazia imponevano un certo riserbo, ma con il passare dei mesi il suo nucleo semiotico (o forse politico?) si è sempre più definito: in Italia, spiega il dossier, la pratica della cucina è un “elemento quotidiano, un modo di prendersi cura di sé e degli altri, ma anche di ricordare le proprie origini e mantenerle vive trasmettendole alle nuove generazioni”.
Ancora più recente – di appena una manciata di ore fa, a onore del vero – è la notizia che l’iter per fare riconoscere la Cucina Italiana come Patrimonio culturale e immateriale dell’Unesco è stato avviato in maniera ufficiale. La sentenza, se così vogliamo definirla, arriva direttamente dal governo: quella di cui sopra è l’unica candidatura dello Stival per il ciclo 2024-2025. Siamo in gioco, insomma. Ma a che gioco stiamo giocando?
La Cucina Italiana a Patrimonio Unesco, tra dubbi e identità
Un breve riassunto delle norme operative: la candidatura, dicevamo, è nata nel 2023 su impulso ella Fondazione Casa Artusi, dell’Accademia Italiana di Cucina, del Collegio Culinario e della rivista La Cucina Italiana; con la stesura del dossier che è invece passata attraverso la penna di un gruppo di esperti coordinato da Elena Sinibaldi e Pier Luigi Petrillo, che già in passato di occupò di curare le candidature all’Unesco della dieta mediterranea e dei pizzaiuoli napoletani. Il termine del percorso di valutazione è stato fissato per dicembre 2025.
Su queste pagine, com’è giusto che sia, abbiamo affrontato la questione evidenziandone anche e soprattutto le incongruenze (compreso il logo, una mano che spadella un po’ di tutto e che di conseguenza può essere vista come una mano che spadella un bel niente), una su tutte l’ambizione di colmare in una formula unitaria quel modo di mangiare della (e dalla) nonna che conquista cuore e pancia e i grandi chef insigniti alla Rossa e con la casacca di un bianco immacolato.
Dicotomia, quest’ultima, antica e allo stesso tempo integrale alla cucina italiana, che potremmo grossolanamente riassumere nello scarto tematico tra stellati e trattorie, e che però pare rimanga “dribblata” (forse sottovalutata?) dalla candidatura a Patrimonio Unesco a favore di “un’unitas italica nel modo di approcciare la tavola e il cibo”, come spiegato dallo stesso presidente del comitato Massimo Montanari. Da qui la nostra domanda: possiamo davvero partecipare al gioco, se da un certo punto di vista pare che dobbiamo ancora comprenderne appieno le regole?