Che le stalle non siano fabbriche, inattaccabile vessillo sbandierato in più occasioni da Assocarni, Coldiretti e altre associazioni di settore, dovrebbe essere più o meno chiaro a tutti (anche se, pruriginosamente, ci permettiamo di dissentire). Un’ovvietà (almeno in apparenza), insomma: perché perdere tempo a ribadire una cosa del genere? Quello che evidentemente sfugge, tuttavia, è chiedersi per quale motivo allevamenti intensivi e impianti industriali siano di fatto stati paragonati, tanto per cominciare. Ve la facciamo breve: siamo nell’aprile 2022, e la Commissione Ue ha appena proposto una revisione della direttiva sulle emissioni industriali che avrebbe raccolto nella denominazione di “impianti industriali” anche le strutture di allevamento. La proposta trova, come accennato, una fierissima opposizione finché, tornando velocemente ai giorni nostri, non appare all’ordine del giorno dell’Europarlamento.
Un regalo agli allevamenti intensivi
Difficile definirlo con altri termini. In plenaria l’Europarlamento ha votato per escludere gli allevamenti bovini dalla direttiva sulle emissioni industriali, e questo nonostante – come è ormai così risaputo che l’unico modo per ignorarlo è tenere la testa sotto terra o essere in malafede – tali impianti siano responsabili di ingenti emissioni di ammoniaca, ossidi di azoto e metano.
Che succede, dunque? Poco o niente – si mantiene lo status quo, insomma. La normativa sulle emissioni continuerà a interessare solamente gli allevamenti di suini con oltre 2 mila capi o 750 scrofe e quelli di pollame con oltre 40 mila animali; e se gli impianti dovessero superare tali limiti potranno ottenere le necessarie autorizzazioni con una nuova e scintillante “procedura di registrazione semplificata”, chiesta espressamente dagli stessi eurodeputati in occasione del voto in plenaria.
La proposta “incriminata” della Commissione avrebbe abbassato di molto le soglie ed esteso la direttiva a tutti gli allevamenti intesivi con più di 150 Unità di bestiame adulto – una modifica che, dati alla mano, avrebbe permesso di mutilare fino al 60% le emissioni di ammoniaca e del 43% quelle di metano coinvolgendo appena il 10% degli allevamenti bovini, il 18% di quelli suini e il 15% di quelli di pollame.
La sostenibilità, in altre parole, si rivela (ancora una volta) poco più di una bella parola piena di vento che piace e compiace. “Secondo l’Agenzia europea per l’ambiente, il settore zootecnico da solo è responsabile del 54% di tutte le emissioni di metano di origine antropica dell’Unione europea” ha spiegato Federica Ferrario, responsabile della campagna Agricoltura di Greenpeace Italia, a il Fatto Quotidiano. “L’allevamento intensivo in Europa è responsabile del 94% delle emissioni di ammoniaca e in Italia, costituisce la seconda causa di formazione di polveri sottili, che ogni anno provocano circa 50mila morti premature”.
Chiudere un occhio e immaginare che gli allevamenti intensivi siano effettivamente sostenibili significa peccare di ingenuità e, francamente, di miopia. Naturalmente è inevitabile che sorga il dubbio: con il “no” alla proposta europea stiamo festeggiando l’aver ribadito un’apparente ovvietà – allevamento diverso da fabbrica – o un favore a chi ha grassi interessi in questo settore?
“Un danno enorme per l’agricoltura sostenibile” continua Ferrario in riferimento alla decisione dell’Europarlamento “che premia gli allevamenti intensivi e inquinanti che distruggono gli ecosistemi, creando un danno per le realtà più piccole, sempre più penalizzate dalle politiche europee. Non credo sia questo il modello del made in Italy”. Nemmeno noi, ma i fatti cominciano a farci ricredere.