Avevamo bisogno di una sentenza della Corte europea per decidere che il latte non si fa con la soia? O che il formaggio, se formaggio si vuole chiamare, non ha nulla a che fare con l’impiastro bianco e molliccio che prende il nome di tofu?
Vi sento: ovvietà, state mugugnando, solo ovvietà.
Eppure è stato necessario l’intervento della Corte di giustizia del Lussemburgo per porre fine al furto di identità da anni consumato ai danni di latte, formaggio, yogurt e prodotti caseari affini.
Quelli veri, ovviamente, fatti con latte di mucca, pecora, asina, magari anche di struzzo, ma comunque animali.
Una cosa normale chiamare le cose con il proprio nome, lo stesso nome che le ha distinte per secoli. Eppure negli ultimi tempi, con il tumultuoso imporsi dei filoni vegani e salutistici, il disordine linguistico in campo alimentare ha assunto dimensioni tali da rendere necessario un pronunciamento istituzionale.
La vicenda è nata da un’azione legale che la VSW, associazione tedesca di tutela della concorrenza, ha promosso contro TofuTown, azienda tedesca che produce sì alimenti vegani, ma impiegando nomi di cibi non vegetali, come appunto “latte” o “burro”.
TofuTown ritiene che né i nomi dei suoi prodotti né le sue pubblicità violino la normativa, perché il modo in cui i consumatori percepiscono questi nomi sarebbe molto cambiato negli ultimi anni.
Al contrario, la sentenza della Corte UE afferma che la sentenza si è resa necessaria proprio a causa del disorientamento che il proliferare di latte e formaggio di ogni sorta, fuorché di origine animale, ha instillato nella mente dei consumatori.
E a poco servono chiarimenti e note evidenziate in etichetta, di per sé insufficienti a “escludere qualsiasi rischio di confusione nella mente del consumatore”.
La Corte ha anche compilato un elenco delle eccezioni (per l’Italia sono quattro: Latte di mandorla, Burro di cacao, Latte di cocco, Fagiolini al burro), che non comprende né soia né del tofu.
In altre parole, siamo così invasi da latticini e formaggi di origine vegetale da esserci quasi dimenticati che il latte, quello vero, non si è adeguato ai tempi, è rimasto uguale a se stesso.
C’è voluta una sentenza per ricordarcelo.
P.S. Nel frattempo, burger e würstel –quelli veri, di succulenta carne– sperano che intervenga un’altra ragionevole sentenza per ridare a loro, e a loro soltanto, il nome che gli spetta, sulla scia della proposta di Christian Schmidt, ministro delle Politiche Agricole tedesche, che richiede a gran voce il divieto di utilizzare la parola “carne” nei prodotti non di origine animale.
Con buona pace di “burger” di soia, di miglio o di tofu.
[Crediti | Link: Il Foglio, Dissapore]