Un nome che è tutto un programma. Il primo rapporto sui lavoratori immigrati attivi nel settore agroalimentare, realizzato dalla Fai in collaborazione con il Centro studi Confronti, si chiama “Made in Immigritaly”; e restituisce l’immagine di un settore – quello agricolo, in particolare – formalmente paralizzato tra la schiacciante necessità di lavoratori immigrati e il torbido trattamento a loro riservato.
Per comprendere appieno questo stato di tensione sono utili, se non addirittura fondamentali, i numeri: “L’agroalimentare è un settore da 600 miliardi fatturato e 64 di export, dove il ricambio generazionale è portato avanti solo dagli immigrati, che coprono il 31% delle giornate lavorate e sono 362mila su 1 milione di addetti” ha spiegato Onofrio Rota, segretario generale della Fai-Cisl.
L’agricoltura tra immigrati, necessità e retorica
Il rapporto citato in apertura di articolo si declina in tre sezioni – una prima che racconta i rapporti tra l’immigrazione e l‘agroindustria, una seconda comprendente novi casi studio territoriali e una terza dedicata a una serie raccomandazioni che si pongono come obiettivo la regolamentazione, la tutela e il riconoscimento di un fenomeno destinato a crescere. Lo spaccato che ne emerge, dicevamo, è quello di un fenomeno strutturalmente imprescindibile – il ruolo dei lavoratori immigrati è “una componente rilevante se non insostituibile in molte filiere”, spiega ancora lo stesso Rota – ma comunque attraversato da ampie e gravi zone d’ombra.
Numeri alla mano, dei 438 casi di procedimento giudiziari per sfruttamento presentati nel lasso di tempo compreso tra il 2017 e il 2022 ben 212 sono provenienti dal solo settore agricolo. L’ombra più nera e al contempo radicata è quella del caporalato, ma badate bene – pensare che si tratti di un fenomeno più o meno esclusivo del Meridione significa peccare di ingenuità. Basti pensare alla recente inchiesta di Al Jazeera, che ha scovato delle fitte sacche di illegalità anche tra le vigne del Barolo, nell’apparentemente virtuoso Nord del Paese.
I lavoratori immigrati si trovano in definitiva a doversi ambientare in un limbo tematico dove sono sia fondamentali – “Abbiamo bisogno di lavoratori che provengono da altre nazioni” ha spiegato lo stesso ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, “purché siano regolarmente arrivati in Italia” – che a malapena tollerati, e spesso e volentieri aggregati in condizioni di feroce sfruttamento.
Il grosso cortocircuito semantico, poi, emerge in tutta la sua forza quando valutiamo l’apparato retorico che galleggia attorno al concetto di Made in Italy: se lo stesso Lollobrigida riconosce che le mani necessarie a svolgere il lavoro debbano venire da fuori, non sarebbe meglio ribattezzare il tutto come causticamente suggerisce il nome del rapporto?